sabato 6 dicembre 2025

Le insidie della legge sull’acqua: «un lupo travestito da agnello» - Laura Buconi

 

Trasportatori e contadini hanno bloccato le strade per protestare contro la riforma della Ley de Aguas (legge sull’acqua) con cui il governo federale promette di seppellire la “legge salinista”, promulgata dall’allora presidente Salinas de Gortari nel 1992 che ha trasformato l’acqua in merce.

La tensione ha diviso le opinioni. Le autorità hanno assicurato che questa nuova legge garantirà finalmente il diritto umano all’acqua e toglierà i privilegi storici ai grandi concessionari. “Che l’acqua smetta di essere vista come una merce e sia riconosciuta come un diritto umano”, ha insistito il ministro della Commissione Nazionale dell’Acqua (Conagua), Efraín Morales López.

Ma dal punto di vista dei cittadini, l’esperta Elena Burns analizza l’iniziativa e lancia un allarme: è “un lupo travestito da agnello”. L’ex vicedirettrice della Conagua, nota per aver dimezzato le concessioni alle grandi aziende durante la sua gestione, assicura che il progetto mantiene un modello “privatizzatore ed estrattivista”. È d’accordo con il Controllo Nazionale Autonomo dell’Acqua (CNAA), che denuncia che la proposta è stata approvata dalla stessa Conagua, omettendo gli accordi di 16 Parlamenti Cittadini Aperti.

Al centro della controversia c’è la questione se la legge smantellerà davvero il sistema che per 33 anni ha permesso alle grandi industrie di accaparrarsi 600 mila concessioni – rispetto alle 2 mila iniziali – mentre le comunità rurali soffrono di carenza idrica; o se, sotto una retorica dei diritti umani, si perfezionerà semplicemente lo stesso meccanismo di appropriazione, ora con più potere concentrato in una Conagua nota per la sua opacità e corruzione.

L’illusione della riforma: cambiamenti superficiali, strutture intatte

La promessa ufficiale sembra convincente: sostituire la Legge sulle acque nazionali del 1992 – che durante il sessennio di Salinas de Gortari ha trasformato l’acqua in un bene commerciabile – con una nuova Legge generale sulle acque che dia priorità al diritto umano. Tuttavia, la CNAA avverte che si tratta di “un tentativo di perpetuare la legge salinista, con modifiche minime”.

La proposta di legge mantiene le strutture e i meccanismi che per tre decenni hanno provocato lo sfruttamento eccessivo delle falde acquifere, l’inquinamento e l’emarginazione idrica di ampi settori della popolazione. Peggio ancora, secondo la CNAA, «include un capitolo dedicato a “promuovere e incoraggiare” la privatizzazione delle opere idrauliche e consente la privatizzazione dei sistemi idrici e fognari», contraddicendo frontalmente il discorso ufficiale sulla demercificazione.

Il processo legislativo evidenzia questa contraddizione fondamentale. Mentre le autorità parlano di inclusione, il progetto della Conagua è stato approvato dalla stessa istituzione, omettendo completamente le proposte dei cittadini generate in 16 Parlamenti Aperti. Elena Burns, che ha raccolto questi accordi, sottolinea l’incoerenza di mantenere due leggi simultanee: “Non ha senso dal punto di vista costituzionale avere due leggi, soprattutto quando una legge afferma che l’acqua deve essere riconosciuta come un diritto umano e l’altra determina chi ha accesso all’acqua e manterrà il sistema così com’è”.

La CNAA deplora che il progetto mantenga i Consigli di bacino, «dove sono rappresentati solo i grandi concessionari, come unica istanza di coordinamento tra governo e cittadini». Multinazionali come Coca-Cola, grandi birrifici e aziende minerarie continuano ad avere voce in capitolo, mentre vengono esclusi i popoli indigeni, i sistemi comunitari e le comunità colpite dall’inquinamento.

Il sussidio occulto: grandi industrie che non pagano

Uno dei punti più gravi dell’attuale legislazione – e che la riforma non corregge – è la discrezionalità nella riscossione dei diritti. Elena Burns presenta dati schiaccianti: i grandi utenti industriali “hanno concessioni per 4,3 miliardi di metri cubi d’acqua e pagano diritti su 900. Nel 2023 avrebbero dovuto pagare 56 miliardi di pesos, ma ne hanno pagati solo 12”.

La CNAA è più specifica: nel 2023, i concessionari per uso industriale e servizi hanno dichiarato solo 951 milioni di metri cubi dei 4.360 milioni concessi, e Conagua ha riscosso solo 12,4 dei 55,6 miliardi di pesos dovuti. Questa evasione fiscale idrica rappresenta un sussidio occulto miliardario alle grandi industrie, distorcendo completamente qualsiasi principio di gestione equa.

La riforma propone di ridurre drasticamente il termine per richiedere proroghe delle concessioni: da quattro anni e mezzo a soli sei mesi. Secondo Burns, questo sarà “un meccanismo per l’estinzione massiccia delle piccole concessioni, che attualmente rappresentano l’80% del totale ma dispongono solo del 20% dell’acqua”.

Un agricoltore o un proprietario terriero difficilmente dispone di una consulenza legale costante che gli ricordi di adempiere a questa procedura in tempi così ristretti. Questo cambiamento, apparentemente tecnico, funziona come un perfetto meccanismo di “appropriazione per logoramento”, in cui l’incapacità dei piccoli produttori di districarsi nella burocrazia comporterà la perdita massiccia dei loro diritti, liberando volumi per i grandi concessionari.

Il vero volto dell’appropriazione: agroindustria e centrali termoelettriche 

Burns richiama l’attenzione sul processo di appropriazione da parte dell’agroindustria a partire dagli anni ’90, in particolare dell’agroindustria degli zuccherifici e imbottigliatori, che insieme alle centrali termoelettriche sono i principali utilizzatori di acqua per uso agricolo. Mentre le autorità annunciano investimenti milionari per la tecnificazione dell’irrigazione in cambio della restituzione dell’acqua risparmiata da parte dei concessionari, la presidente Sheinbaum ha denunciato che alcuni si rifiutano di consegnarla e «c’è chi la vende».

Questa pratica è particolarmente grave quando si tratta di distretti irrigui che vendono ai comuni l’acqua che hanno ottenuto gratuitamente, commercializzando un diritto che dovrebbe essere pubblico.

Conagua: arbitro o giudice parziale?

La proposta concentra in Conagua, la Commissione Nazionale dell’Acqua, il potere esclusivo di concedere o revocare le concessioni. Sebbene in teoria ciò miri a porre fine al mercato informale della compravendita, per le associazioni della societá civile significa conferire tutto il potere a “un organismo opaco in cui sono stati verificati numerosi casi di corruzione”.

Burns esprime preoccupazione per le difficoltà di accesso delle comunità rurali ai sistemi digitali di Conagua e mette in discussione i criteri che l’istituzione utilizzerebbe per decidere chi ottiene le concessioni. “Per noi è un errore conferire tutto il potere a un’istituzione governativa, senza alcun criterio, senza trasparenza e senza partecipazione”, afferma, sottolineando che la Costituzione richiede la partecipazione dei cittadini e dei tre livelli di governo.

In aggiunta a ciò, una delle lacune più gravi segnalate dalla CNAA è che la proposta “esclude il riconoscimento dei diritti all’acqua dei popoli e delle comunità indigene”, un diritto sancito dalla Costituzione dal 2001. Inoltre, non riconosce i decreti presidenziali, che hanno valore giuridico superiore alle concessioni.

Questa omissione non è tecnica ma politica: ignora i diritti storici e i sistemi comunitari di gestione dell’acqua che hanno dimostrato una maggiore sostenibilità rispetto al modello centralizzato statale.

Gestione incompetente: il caso della falda acquifera Libres-Oriental

Francisco Castillo Montemayor, ex responsabile dell’Ambiente a Puebla, illustra le carenze gestionali con il caso della falda acquifera Libres-Oriental: «Fino al 2019 aveva una disponibilità compresa tra 4 e 7 metri cubi, mentre nel 2020 improvvisamente la disponibilità è diventata quasi nulla. Attualmente ha un deficit di 22 milioni di metri cubi».

La sua diagnosi è categorica: «Il problema dell’acqua nel 70% del territorio nazionale è dovuto all’inefficienza nella gestione, non alla scarsità delle risorse».
Questa incompetenza tecnica, unita agli interessi economici, ha creato una crisi artificiale che giustifica riforme che, invece di correggere il problema, lo aggravano.

Da parte sua, Elena Burns sintetizza il verdetto degli esperti: l’iniziativa «ci fa pensare che semplicemente si continui ad alimentare il sistema estrattivista e mercantilista. Nella Legge Nazionale sull’Acqua non si fa menzione del diritto umano all’acqua, non ci fornisce alcuno strumento per poter obbligare il governo a rispettare il diritto umano dei cittadini all’acqua».

L’omissione del minimo vitale gratuito – elemento essenziale del diritto umano all’acqua – conferma che la retorica dei diritti è solo una copertura per mantenere intatto un sistema di privilegi. Mentre il governo annuncia che modificherà l’iniziativa dopo le proteste, la sfiducia dei cittadini continua a crescere: temono che i cambiamenti siano solo cosmetici e che, dopo l’apparente dibattito, si consolidi un modello che perpetua l’acqua come merce per pochi e sete per molti. 

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giovedì 4 dicembre 2025

Cosa accade alle librerie indipendenti di Parigi e perché il blocco al fondo comunale ci riguarda? - Michela Calledda(1)

A Parigi la destra di Changer Paris ha bloccato i fondi comunali per le librerie indipendenti contestando un libro esposto da Violette and Co. Un precedente che è un allarme per la libertà culturale.

Ci sono storie che, viste da lontano, sembrano riguardare solo le grandi città, i grandi poteri, le loro tensioni interne e le librerie lontane. Ma basta cambiare angolo, guardare da uno dei margini – quelli che la provincia conosce così bene – per accorgersi che ciò che accade altrove parla anche di noi. Sempre. La rubrica “Tutto il mondo è paese” nasce proprio da qui: dalla convinzione che i luoghi periferici non siano posti minori, ma punti d’osservazione privilegiati. Che da una libreria di un paese, da strade che non compaiono nelle mappe del potere, si possa leggere con più chiarezza ciò che succede nelle capitali.

Perché ciò che accade a una libreria di Parigi non resta mai solo a Parigi: attraversa il mare, le pianure, i confini amministrativi e arriva fino a noi, nelle comunità che sanno cosa significa difendere ogni giorno un presidio culturale senza protezioni. Ed è da questa consapevolezza che parte il racconto di oggi: da un fatto apparentemente lontano che, se guardato con attenzione, rivela qualcosa di molto vicino. Perché la cultura è fatta anche di luoghi fragili e questi luoghi, ovunque siano, condividono lo stesso destino.

Parigi e il fondo bloccato per le librerie indipendenti

A Parigi nelle ultime settimane è accaduto qualcosa che non può essere archiviato come un semplice scontro politico. Un fondo comunale destinato alle librerie indipendenti è stato bloccato con un atto del gruppo Changer Paris, formazione della destra parigina legata a Les Républicains, che ha chiesto e ottenuto la sospensione dell’intera sovvenzione per trasformare in caso politico un libro esposto in vetrina da Violette and Co, storica libreria femminista e LGBTQ+.

Non è il gesto in sé a essere anomalo: è il principio, l’idea che un’amministrazione – o una parte politica con sufficiente forza istituzionale – possa intervenire direttamente sulla vita di una libreria a partire da ciò che quella libreria espone, propone, difende.
Una soglia che in una democrazia non dovrebbe mai essere oltrepassata. Ed è qui che la vicenda mostra il suo aspetto più inquietante.

Le librerie non sono negozi come gli altri. Sono snodi di senso, punti di ascolto

Perché ciò che emerge non è solo la volontà di condizionare un settore, ma l’idea che la politica possa intervenire sulla libertà culturale, decidendo quali voci sono accettabili e quali no. È un segnale che attraversa tutte le librerie – e, più in generale, tutti i luoghi indipendenti di cultura – lasciando intendere che una semplice scelta di vetrina possa trasformarsi in un terreno di scontro politico. Un clima che non tutela il pluralismo, ma lo rende vulnerabile.

E questo accade mentre in Francia, proprio nelle settimane precedenti, diverse librerie sono state bersaglio di raid fascisti: irruzioni, intimidazioni, volantini minacciosi, azioni coordinate contro librerie femministe, LGBTQ+ e politiche. Episodi documentati anche nel vademecum diffuso dal Syndicat de la librairie française, che ha invitato le librerie a riconoscere, segnalare e affrontare queste aggressioni. Un contesto che rende ancora più chiaro quanto il terreno culturale sia diventato uno spazio di attacco politico.

Librerie, presidi di complessità

Le librerie non sono negozi come gli altri. Sono snodi di senso, punti di ascolto, luoghi in cui le storie scomode trovano spazio, in cui la complessità può essere nominata. Sono spazi che non rispondono alla logica del consenso, ma a quella della libertà. E proprio per questo sono esposte.

Il fatto che la punizione sia arrivata attraverso un meccanismo economico non la rende meno politica: Changer Paris, in continuità con la linea di Les Républicains, ha usato lo strumento che oggi permette di intervenire senza dichiararlo apertamente – tagliare, bloccare, restringere lo spazio materiale della cultura. Non si discute un libro, si colpisce chi permette ai libri di esistere. Non si attacca un’idea, si mette a rischio il luogo che la ospita.

Il caso di Parigi ci riguarda da vicino. Perché racconta quanto sia fragile la linea di confine tra autonomia culturale e intervento del potere; quanto sia facile trasformare una libreria in un bersaglio; quanto sia pericoloso il precedente che si crea quando un’amministrazione decide che un titolo in vetrina può diventare materia di sanzione politica. E qui, davvero, tutto il mondo è paese. Perché anche altrove – nei piccoli centri, nelle periferie, nelle città dove la cultura non ha protezioni – le librerie indipendenti vivono dentro la stessa esposizione: margini minimi, nessun apparato alle spalle, nessun potere compensativo. Solo la propria coerenza e una comunità che le riconosce come presidi civili.

Quando una libreria viene colpita, è la qualità stessa della democrazia a essere messa in discussione. Perché la libertà culturale non viene mai negata tutta insieme: comincia a incrinarsi ogni volta che un potere – oggi a Parigi, domani altrove – decide che una vetrina è troppo ingombrante, troppo libera, troppo capace di dire ciò che non si vuole ascoltare.

Questo articolo fa parte della rubrica “Tutto il mondo è paese” a cura di Michela Calledda della Libreria La Giraffa di Siliqua2.


Link

https://www.violetteandco.com/

https://www.facebook.com/LaGiraffaLibri

https://www.vistanet.it/cagliari/2025/07/14/la-giraffa-aprire-una-libreria-come-atto-politico-la-storia-di-resistenza-di-michela-calledda/

https://www.italiachecambia.org/sardegna/

Michela Calledda in Bottega

https://www.labottegadelbarbieri.org/i-bambini-che-muoiono-nel-mediterraneo-e-gli-istinti-feroci-delle-piazze/

https://www.labottegadelbarbieri.org/la-scuola-e-il-margine/

NOTE

1 Michela Calledda, Operatrice culturale, ha scritto per varie riviste fra cui Gli Asini e Sardinia Post, dal 2021 libraia, fondatrice della libreria indipendente La Giraffa a Siliqua, un piccolo centro a 40 km da Cagliari. https://www.italiachecambia.org/author/michela-calledda/

2 https://www.italiachecambia.org/2023/12/siliqua-libreria-indipendente/

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mercoledì 3 dicembre 2025

Cop 30: la fine delle illusioni - Giorgio Ferrari

Si riuscirà a discutere dei risultati della Conferenza sul clima conclusasi a Belem senza limitarsi ad addossarne il fallimento ai soliti noti?

Gli argomenti per farlo, a mio modo di vedere, non mancano e spero che nell’elencarli non vado ad urtare la suscettibilità di qualcuno.

E’ opinione corrente che la crisi climatica sia la conseguenza più evidente, anche se non la sola, di un modello di sviluppo. Questo modello, basato su produzione e consumo di merci senza limiti, è entrato in crisi già da molti anni anche perché i pilastri su cui si regge sono a loro volta pericolanti: liberismo e democrazia.

Il sistema mondo dominante, uscito dalla seconda guerra mondiale e consolidatosi dopo il crollo dell’Unione sovietica, è fondamentalmente basato su di una conclamata superiorità occidentale, ma questa peculiarità, di cui si sono fatte vanto le classi dirigenti, gli intellettuali e gli scienziati dell’Occidente tutto, è entrata a sua volta in crisi e non credo ci siano dubbi nel ritenere che l’universalismo dei valori occidentali è definitivamente sepolto sotto le macerie di Gaza.

E’ possibile dunque, riflettere sui risultati della Cop 30, senza tener conto delle diverse e convergenti crisi che attraversano questa fase storica, chiamandole per quello che sono?

Crisi di un modello di sviluppo come crisi del capitalismo.

Crisi della democrazia tout court, in quanto alveo naturale del capitalismo più moderno e cassa di compensazione di quel liberismo che non è più in grado di funzionare senza violare le sue stesse regole, dato che nonostante abbia coniugato “la mano invisibile del mercato” con le regole del WTO (organizzazione mondiale del commercio), oggi è tornato a praticare il più vieto protezionismo (i dazi applicati da Stati Uniti ed Europa), rispolverando perfino la “politica delle cannoniere” (Venezuela, Iran). Di qui il conflitto tra liberismo e democrazia, da cui non si esce se non con una ulteriore scadimento di quest’ultima, cosa peraltro avvertibile con le politiche securitarie statunitensi ed europee oltre che dall’attacco al welfare che sta investendo l’Unione europea.

Crisi di identità dell’Occidente, che essendo liberista e capitalista è trascinato dalle loro rispettive criticità, verso scenari di guerra contro nemici inesistenti che attenterebbero alla sua presunta superiorità.

Basta tutto ciò ad illustrare il nesso con l’ennesimo fallimento della conferenza sul clima? Col rischio di risultare pedante, lo ripropongo da un’altra angolatura.

Sono anni ormai che la transizione energetica è stata individuata come unica risposta alla crisi climatica essendo essa entrata a far parte dell’agenda politica, sia degli stati partecipanti alle conferenze sul clima, sia dei movimenti ambientalisti, con la differenza che questi ultimi ne sostenevano e ne sostengono una versione più radicale che sinteticamente rivendica più rinnovabili, messa al bando dei combustibili fossili, giustizia climatica.

Pur volendo trascurare la contraddizione rappresentata dall’aumento esponenziale dell’estrattivismo che essa porta con sé, la transizione energetica – tanto più nella sua versione radicale – non potrà realizzarsi perché i presupposti su cui si è basata fin dall’inizio si stanno rivelando infondati.

L’abbandono dei fossili presuppone uno sviluppo enorme delle rinnovabili che a loro volta presuppongono una quantità di materiali strategici (terre rare e non solo) che – come ho ripetutamente scritto – non è nelle disponibilità di quei paesi e di quei settori industriali che più di altri hanno puntato sulla transizione energetica, comparto politico industriale europeo in primis.

Questo aspetto altro non è che l’ennesima crisi, precisamente crisi da materie prime, che va ad integrarsi con le altre sopra descritte, da cui l’occidente capitalista non riesce a venir fuori a meno di andarsi a prendere queste risorse con la forza.

E’ questo che vogliono i movimenti ambientalisti? Certamente no, ma allora facciamola una riflessione sulla consistenza di questa rivendicazione, di come concettualmente è stata presentata all’opinione pubblica mondiale questa transizione energetica.

In principio fu il verbo degli scienziati, con in testa l’IPCC, a dirci che se non si abbattevano le emissioni il nostro futuro e quello del pianeta sarebbe stato compromesso, al punto che l’IPCC fornì addirittura una condizione limite al riscaldamento globale, peraltro risultata impraticabile (non superare 1,5°C rispetto ai livelli pre industriali). Di qui la scelta di agire esclusivamente sulle emissioni in atmosfera legate al ciclo di produzione e consumo di merci e servizi, senza prendere in alcuna considerazione qualsiasi ipotesi che potesse incidere sul volume e/o quantità di queste attività.

A parte isolate voci, che qualche domanda in proposito se la ponevano, c’è stato tra i movimenti ambientalisti chi abbia messo in discussione l’automobile elettrica? Qualcuno che abbia sollevato il problema del trasporto su gomma (oltre il 90% del totale), che abbia posto l’accento sulla sovrapproduzione di merci in genere o che abbia adombrato -per esempio- l’idea di eliminare/ridimensionare l’uso della plastica? Per carità non metto in dubbio che qualcuno si sia speso in tal senso o che singole prese di posizione siano avvenute, ma il messaggio globale dei movimenti di massa è stato ed è ristretto alla fuoriuscita dal fossile, cioè a dire che con l’esclusione dei combustibili fossili, tutte le altre pratiche che caratterizzano questo modello di sviluppo non venivano messe in discussione.

A compimento della Cop 30 capita di leggere sulla stampa di sinistra o anche ambientalista che le petromonarchie avrebbero imposto il loro punto di vista e di conseguenza se la transizione è abortita (perché poi di questo si tratta) è colpa dei soliti noti. Come dire che una parte del capitalismo tiene in ostaggio il mondo intero vanificando le buone intenzioni di un’altra parte del capitalismo (quello che ha scommesso sulla transizione).

Ma la crisi delle materie prime c’è o non c’è? E quella dell’auto elettrica? La lievitazione dei costi di costruzione/installazione delle rinnovabili in Europa e la concorrenza cinese in questi settori esiste oppure no, e in che misura incide?

Non ci si può esimere dal prendersi carico di questi aspetti se fin dall’inizio si è avanzata una richiesta che tacitamente li comprendeva tutti, perché questo è successo: si è chiesto al capitalismo di fare una scelta senza mettere in discussione il suo modo di essere, dato che, in fin dei conti, la transizione energetica – persistendo determinate condizioni di mercato – si presentava come una grande opportunità economica ed ora che queste condizioni sono saltate, nonostante i cospicui contributi statali, pretenderemmo che i padroni continuino ad investire nella transizione energetica anche a costo di rimetterci? Vero è che i padroni tendono a mentire sui bilanci delle loro imprese, ma questo era vero anche quando ci si è limitati a chiedere che per risolvere la crisi climatica cambiassero solo il modo di sfruttamento dell’energia, lasciando inalterato il modo di produzione capitalista

Le crisi di cui ho accennato sopra non sono di quelle che consentono una lettura in chiaro scuro della fase attuale, essendo che i margini di manovra per uscirne senza ricorrere alla guerra, si fanno sempre più ristretti per tutti, capitale compreso. Questo è particolarmente vero per quell’ambientalismo che ha sempre preteso di rigettare certi frutti del capitalismo senza metterne in discussione l’esistenza.

Sarebbe tempo di prenderne atto e di chiamare le cose con il loro nome senza aver paura delle parole. La crisi climatica va denunciata senza mezzi termini come conseguenza del sistema capitalista e non addebitata al comportamento di un indistinto “uomo” come fa l’Antropocene o ad un’altra altrettanto indefinita industrializzazione. Quanto alla sopravvivenza del pianeta e dell’umanità, questa non si persegue con la fuoriuscita dal fossile, ma convincendo la gente che ciò da cui bisogna uscire è il capitalismo e nello stesso tempo impegnarsi non per un’altro generico “mondo possibile”, ma per una società che senza troppi giri di parole, non può che chiamarsi socialista.

Se poi c’è ancora qualcuno che ha paura di questa parola o che la ritiene desueta o fuori luogo, si chieda come mai nella città che per antonomasia è simbolo del capitalismo, ha vinto il candidato che si è dichiarato socialista e con un programma che prevede il salario minimo a 30 dollari/ora; trasporti gratis e affitti calmierati per le classi meno abbienti e tasse maggiorate per i ricchi.

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martedì 2 dicembre 2025

In Italia la spesa pubblica sanitaria è tra le più basse dei Paesi Ocse. E le famiglie pagano di tasca propria molto più degli altri - Francesco Lo Torto

 

I dati del rapporto dell’Ocse. Criticità anche sul numero degli infermieri e sui fattori di rischio per la salute. Risultati positivi sull'aspettativa di vita e le cura delle urgenze

 

Gli ospedali reggono, spesso grazie all’abnegazione e alla preparazione dei professionisti. Il territorio invece cede, incapace di intercettare precocemente i bisogni dei cittadini prima che diventino emergenze. Il quadro dell’Italia che emerge dal rapporto Health at a Glance 2025 dell’Ocse – che analizza i sistemi sanitari di 38 Paesi industrializzati – è quello di uno Stato che ha smesso di investire nel proprio sistema sanitario, scaricando costi e responsabilità sul personale rimasto e sui cittadini. L’Italia spende per la sanità 5.164 dollari pro capite, ben sotto la media Ocse (5.967), un terzo in meno della Francia (7.367) e oltre il 40% in meno della Germania (9.365). Una scelta politica che ha delle conseguenze: le famiglie italiane sono tra quelle che pagano di più di tasca propria per la loro salute in tutta Europa. La spesa sanitaria “out of pocket” incide per il 3,5% sui consumi domestici. Contro il 2% della Francia e il 2,5% della Germania. Il 48% di questa spesa privata è dedicato all’assistenza ambulatoriale. È il secondo valore più alto dell’area, contro una media Ocse del 22%. Quello che dovrebbe essere garantito dal pubblico, dunque, è sempre più un bene acquistato, anche per via delle lunghe liste d’attesa che spingono chi può verso il privato, e chi non può verso la rinuncia. Facendo scivolare il Servizio sanitario nazionale verso un modello sempre più frammentato e diseguale.

Criticità sui fattori di rischio per la salute

Anche per quanto riguarda i fattori di rischio per la salute, il rapporto identifica e misura le criticità del sistema italiano. Nel nostro Paese vengono prescritti più antibiotici rispetto alla media Ocse ed esiste un serio problema di sedentarietà e di abitudini nocive, soprattutto tra i giovani: siamo terzi per prevalenza di fumatori tra i 15enni (circa il 15%, dopo Ungheria e Bulgaria) e secondi per consumo di alcol tra gli adolescenti, dietro solo alla Danimarca. Per quanto riguarda l’attività fisica, il 45% degli adulti non ne fa abbastanza (la media Ocse è del 30%) e gli adolescenti italiani risultano i meno attivi dell’intera area, con un dato in deciso peggioramento negli ultimi dieci anni. A questi fattori di rischio si aggiunge l’inquinamento: l’esposizione media al Pm 2,5 è di 14,3 microgrammi per metro cubo, anche in questo caso sopra la media Ocse di 11,2 microgrammi.

La crisi degli infermieri

Altro punto critico identificato dal rapporto è quello del personale, in particolare gli infermieri: l’Italia ne ha 6,9 per mille abitanti, contro una media Ocse di 9,2. In Francia sono 11 e in Germania 13. Una carenza gravissima che indebolisce ospedali, Rsa, servizi domiciliari e sanità territoriale. Senza infermieri non possono esistere le Case di Comunità, così come non può essere garantita un’adeguata assistenza domiciliare o la corretta presa in carico dei pazienti cronici. Il problema, oltreché legato alle condizioni lavorative, è economico: negli altri Paesi Ocse gli infermieri guadagnano in media il 20% in più del salario medio nazionale. In Italia, al contrario, guadagnano meno della media dei lavoratori a tempo pieno. Una condizione che rende la professione poco attraente per i giovani e spinge molti professionisti a emigrare all’estero o a spostarsi nel privato. In futuro la situazione non migliorerà: negli ultimi dieci anni, mentre nei Paesi Ocse il numero di nuovi infermieri cresceva, in Italia i laureati in infermieristica sono diminuiti del 20%. La professione è percepita come faticosa, rischiosa e scarsamente retribuita. Tanto che i posti nelle università restano vacanti a causa della mancanza di candidati.

L’assistenza a lungo termine

Il rapporto fotografa inoltre una fragilità profonda nell’assistenza a lungo termine: il nostro Paese conta solo 1,5 operatori ogni 100 over 65, contro una media Ocse di 5. Un dato che pesa ancora di più se pensiamo che il nostro è uno dei Paesi più anziani al mondo. Critico anche il dato sui posti letto: gli ospedali italiani ne hanno 3 posti ogni mille abitanti, contro i 4,2 della media Ocse e i 5,4 francesi e i 7,7 tedeschi.

Gli indicatori positivi

Nonostante le carenze strutturali, la poca prevenzione e un crescente ricorso alla spesa privata, l’Ssn, con il suo approccio universalistico, mostra ancora dei risultati eccellenti su alcuni indicatori. Il nostro Paese, infatti, continua a figurare tra quelli con la più alta aspettativa di vita al mondo (83,5 anni, ovvero 2,4 in più rispetto alla media) e con un sistema ospedaliero capace di garantire ottimi risultati nella cura delle urgenze, nonostante la profonda crisi in cui versano i pronto soccorso: le mortalità post-infarto e post-ictus sono più basse della media Ocse, così come la mortalità prevenibile e quella curabile. Ma, come evidenzia il report, senza un’inversione di rotta – soprattutto per quanto riguarda gli investimenti sul personale, la prevenzione e il rafforzamento del territorio – l’Italia comprometterà presto anche questi indicatori positivi, che oggi la collocano tra i Paesi più longevi e clinicamente efficaci dell’Ocse.

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lunedì 1 dicembre 2025

Campbell, “merda per i poveri” e povertà di un’azienda - Gianluca Cicinelli

E meno male che il cliente è al centro dell’azienda. Parola loro, non nostra. “Mettiamo il consumatore al centro di tutto quello che facciamo. È così che abbiamo costruito fiducia per quasi 150 anni”, scriveva orgogliosa la Campbell qualche anno fa, spiegando perché appoggiava le etichette sugli OGM e come difendeva il diritto delle persone a sapere cosa c’è nel piatto.

Poi, molti comunicati dopo e parecchie lattine vendute in più, salta fuori un audio. In quella registrazione, allegata a una causa civile in Michigan, la voce che l’azienda stessa riconoscerà come quella di Martin Bally, vicepresidente dell’area IT, non sembra esattamente ossessionata dall’idea di “mettere il consumatore al centro”.

Le zuppe Campbell diventano “highly processed food for poor people”, cibo altamente processato per poveri, e soprattutto “shit for fucking poor people. Who buys our shit? I don’t buy Campbell’s products anymore”. Merda per poveri del cazzo. Chi compra la nostra merda? Io i prodotti Campbell non li compro più.

È lo stesso marchio che, nei documenti ufficiali, racconta di voler portare “qualità, valore e sicurezza alle masse”, di avere da sempre il consumatore come stella polare, di lavorare per “make food people love”, fare cibo che le persone amano. Nel file audio, però, l’amore per il consumatore si traduce in un’altra lingua: quella che si usa quando si parla dei poveri convinti a cucinarsi una cena in 5 minuti col microonde.

La scena, a raccontarla, sembra scritta da uno sceneggiatore con un dente avvelenato contro gli uffici del personale di mezzo mondo. Novembre 2024, riunione in remoto. Da una parte del monitor c’è Martin Bally, vicepresidente e capo della sicurezza informatica di Campbell’s: non un cuoco, non un nutrizionista, ma uno che dovrebbe occuparsi di hacker e firewall.

Dall’altra un analista di sicurezza, Robert Garza, assunto da poco, che crede di dover discutere di lavoro e prospettive. E invece si ritrova a fare da pubblico a una lunga tirata del capo sui prodotti dell’azienda, sui poveri che li comprano, sui colleghi indiani, sugli edibles alla marijuana che lui stesso, sostiene Garza, consumerebbe con una certa disinvoltura.

A un certo punto, racconta Garza, scatta l’istinto di sopravvivenza del sottoposto moderno: il dito va sul tasto “rec”. Da quel momento tutto viene registrato. Nella registrazione, finita poi nella causa civile in Michigan e nelle mani di vari media statunitensi, si sente il dirigente ripetere le stesse frasi sulle “highly processed food for poor people” e sulla “shit for fucking poor people” già citate, in un crescendo che sembra fatto apposta per titoli e meme.

È un raro momento di sincerità: il manager che prende le distanze dal cibo che gli paga lo stipendio, dichiarando di non toccarlo nemmeno con la forchetta dei poveri. Non contento, secondo la denuncia, aggiunge che quel pollo sarebbe “bioengineered meat”, roba uscita da una stampante 3D. Il tutto in mezzo a commenti razzisti sui colleghi di origine indiana, considerati incapaci di pensare con la loro testa. Cibo di merda per poveri, colleghi di merda per pregiudizio, e al centro lui, la coscienza critica del capitalismo da lattina.

La storia salta fuori solo mesi dopo. Garza sostiene di aver segnalato internamente quelle frasi a gennaio 2025. Dopo circa tre settimane, il licenziamento. Lui parla di ritorsione per aver denunciato un ambiente razzista e un dirigente fuori controllo. L’azienda contesta, parla di altre ragioni. La verità giuridica la stabilirà un tribunale, nel frattempo Garza resta senza lavoro e porta in causa Campbell’s, Bally e il suo diretto superiore. E il file audio, nato per autodifesa, diventa prova centrale del caso e detonatore mediatico.

Quando la registrazione arriva a una tv locale di Detroit e poi ai giornali nazionali, Campbell’s reagisce secondo protocollo. Prima mette Bally “in congedo”, in quella zona grigia dove i manager problematici vengono parcheggiati mentre gli avvocati contano fino a dieci. Poi, vista la tempesta, riconosce che la voce nel file è proprio la sua, lo scarica, annuncia che “non è più dipendente dell’azienda” e definisce quelle parole “volgari, offensive e false”, soprattutto quando parla di pollo ingegnerizzato e stampanti 3D.

Su questo, l’azienda si affanna a precisare: il pollo è vero, al cento per cento, viene da fornitori approvati dal Dipartimento dell’Agricoltura, nessuna carne coltivata in laboratorio, nessuna tecnologia fantascientifica nel barattolo. Il messaggio è semplice: il problema non è il contenuto della lattina, è il contenuto del dirigente.

È la grande religione della mela marcia. Quando un manager apre bocca e fa uscire quello che doveva restare confinato ai cinici pensieri di corridoio, l’azienda lo isola come un virus. Non è il sistema che tratta i poveri come un mercato di serie B a cui rifilare cibo ultra-processato a poco prezzo. È lui, il singolo cretino, che a differenza degli altri ha dimenticato la prima regola: non dirlo mai così, non dirlo in una registrazione.

Intanto la politica, che non perde mai l’occasione di fare campagna su ogni pezzo di carne, reale o immaginaria, sente l’odore del sangue. In Florida, dove è stata vietata la carne coltivata in laboratorio, il procuratore generale annuncia un’indagine sulla Campbell’s, citando proprio le frasi del dirigente sulla “bioengineered meat” e il pollo da stampante 3D, come se in quell’ora di sproloquio di un responsabile IT ci fosse la verità rivelata sulle filiere alimentari.

Campbell’s si ritrova così stritolata fra due narrative ugualmente tossiche: quella del manager che esagera e quella della politica che sfrutta l’esagerazione per confermare la propria crociata. In mezzo, di nuovo, i poveri veri, che continueranno a mangiare quello che trovano sugli scaffali del discount, con o senza etichetta “bioengineered”.

Perché è di questo che si parla, sotto i comunicati stampa e le querele minacciate. Di un’intera architettura economica che considera i poveri un target e non un’emergenza. Chi ha poche decine di dollari a settimana per mangiare non sceglie tra bistrò e cucina molecolare: sceglie tra scaffali di prodotti a lunga conservazione, offerte, promozioni, coupon. Le periferie sono piene di supermercati dove il fresco costa più del tempo che non hai, e il cibo in lattina è la soluzione logica per orari impossibili, doppio lavoro, salari insufficienti. In quel segmento di mercato, il confine fra “buono” e “accettabile” è dettato dal margine di profitto, non dalla dignità del piatto.

Il dirigente che parla di “merda per poveri” non inventa nulla. Mette solo in chiaro la gerarchia non scritta: c’è il cibo per chi può permettersi di pensare al gusto e alla salute, e c’è il cibo per chi deve solo sopravvivere a fine mese. La domanda vera non è se quel pollo venga davvero soffiato da una stampante 3D, come in un incubo techno-trash, ma su chi si regge questa dieta di massa. Finché esisterà un mercato di “prodotti per poveri” costruito sull’idea che le loro papille gustative valgono meno, che i loro stomaci sono destinazione naturale di ciò che il resto del mondo non mangerebbe, la frase “cibo di merda per poveri” resterà lì, pronta a scappare dalla bocca del prossimo dirigente in overconfidence.

Piero Manzoni, nel 1961, inscatolava direttamente la Merda d’artista e almeno sull’etichetta era onesto. Andy Warhol, l’anno dopo, con le lattine Campbell ci faceva un’icona pop: la zuppa industriale elevata ad arte, appesa nei musei come simbolo dell’America che mangia in serie. Campbell invece tiene un piede in ogni barattolo: nelle gallerie è la lattina glamour di Warhol, nelle riunioni interne il suo dirigente parla di “merda per poveri”, ma sulle etichette continua a chiamarla “food people love”. Alla fine, tra Manzoni, Warhol e Campbell, l’unico che non prende in giro il pubblico è quello che la merda l’ha scritta davvero sulla scatola.

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domenica 30 novembre 2025

In morte di una foresta. Così l’esportazione del tannino sta distruggendo l’ecosistema del Chaco argentino - Marta Facchini e Irupé Tentorio

 L'area soffre i più alti tassi di deforestazione al mondo: solo nel 2024 sono andati distrutti 150mila ettari. E il paesaggio si sta trasformando in campi di polvere | Foto di Sofía López Mañan

 

SOMMARIO

1.      Tagliare legname oltre i limiti legali

2.      Il labirinto della produzione di tannino

3.      La rotta del tannino


“Tutti i giorni vediamo passare camion che trasportano tronchi su tronchi dei nostri alberi. È l’immagine di come sta scomparendo il Chaco argentino”. Natay Collet è guardiaparco. Nel suo lavoro quotidiano, assiste in prima persona alle deforestazioni illegali che stanno portando alla distruzione di uno degli ecosistemi più importanti dell’America Latina. Il Gran Chaco è una foresta subtropicale che si estende per 100 milioni di ettari tra Argentina, Paraguay, Brasile e Bolivia. È un territorio prezioso: composto da foreste e macchia, ospita migliaia di varietà di piante e centinaia di specie animali.

Secondo Greenpeace è una delle aree che soffre i più alti tassi di deforestazione al mondo: solo nel 2024 nel Chaco argentino sono andati distrutti 150mila ettari, il 10% in più rispetto all’anno precedente. A causa dell’avanzata dell’industria agricola, del legname e del carbone, il paesaggio si sta trasformando in campi di polvere. Ma, a differenza di quanto accade per la vicina Amazzonia, è una situazione poco visibile.

“Le ruspe producono effetti disastrosi perché le catene distruggono tutto. Alberi, piante, nidi di uccelli, fiori: tutto cade a terra e muore”, aggiunge Collet a ilfattoquotidiano.it mentre cammina per le strade sterrate che conosce a memoria. Per anni ha lavorato come cineasta e ha attraversato questo territorio riprendendo fauna e flora per fare sì che non si perda la loro memoria. Ha proiettato i suoi documentari nelle comunità dei popoli originari che vivono nel Gran Chaco e se ne prendono cura. “Nel nostro ecosistema vivono persone di diverse culture e alcune comunità sono qui da millenni. Hanno un legame spirituale con la foresta. La sua degradazione implica la rottura di una relazione ancestrale con la natura”, prosegue. Si avvicina al fusto di un quebracho colorado: questa specie cresce solamente nella ecoregione del Gran Chaco, l’unico posto al mondo in cui è possibile trovarla

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sabato 29 novembre 2025

Allora del clima non ve ne frega niente - Andrea Barolini

Ciascuno per sé. Non c’è altro modo di descrivere la trentesima Conferenza mondiale sul clima delle Nazioni Unite che si è conclusa sabato 22 novembre a Belém, in Brasile. La Cop30 è stata, diciamolo, surreale e caotica da tanti punti di vista. 

Tentiamo una difficilissima sintesi. Nei primi giorni ci siamo, di fatto, tutti illusi. La presidenza brasiliana aveva infatti pubblicato dei testi provvisori che presentavano anche alcune opzioni decisamente ambiziose, in particolare su quello che era stato declamato come l’obiettivo principale della Cop30: adottare una roadmap per l’uscita dalle fonti fossili. È quell’anche che molti hanno sottovalutato.

Alle Cop30 nessun risultato sulle fonti fossili né sulla deforestazione

A fronte di quelle opzioni ambiziose ce n’erano troppe che non lo erano affatto. E soprattutto troppi ipotesi di «no text», che indicavano che qualche governo chiedeva di saltare a piè pari le questioni. Così, a due giorni dalla fine della conferenza è arrivata la doccia fredda. Qualsivoglia ipotesi di dare corpo dalla locuzione anodina e vaga (ma a due anni di distanza, occorre dire, benedetta) uscita dalla Cop28 di Dubai – transitioning away from fossil fuels – è stata abbandonata. Le parole fossil fuels non figuravano più in nessun passaggio della bozza. 

Raggelante, rispetto ai primi giorni di negoziati, nel corso dei quali il dinamismo della presidenza brasiliana – pronta anche a rompere i protocolli pur di arrivare “a dama” – aveva davvero fatto sperare in un risultato positivo. Leggendo quella bozza così piatta e svuotata di contenuti, molti hanno perfino pensato a una tattica: «Che la presidenza lo abbia fatto per sparigliare?». Tanto è stato lo stupore che si è cercato di leggerci, appunto, una strategia. 

E invece no. La realtà era ed è, semplicemente, che nel mondo non c’è accordo. La necessità di superare la dipendenza da carbone, petrolio e gas non è condivisa da tutti. Soprattutto, non lo è dai Paesi che bruciano la stragrande maggioranza di quelle fonti fossili. Stati Uniti, Cina, India e Russia. E sì, certamente: sulla Cina andrebbe fatto un discorso diverso, poiché la posizione di Pechino non è quella di Washington, non c’è alcun dubbio. Ma di fatto, la realtà che occorre dirsi è che «basterebbe un G2 per risolvere il problema dei cambiamenti climatici» (almeno dal punto di vista della mitigazione), come suggerito a Belém da Tommaso Perrone, uno dei giornalisti più esperti di Cop e di negoziati.

I risultati raggiunti alla Cop30 di cui non possiamo accontentarci

È questo il “ciascuno per sé”. Sul superamento delle fonti fossili a dire di no sono i Paesi che le estraggono, le vendono e/o ne sono fortemente dipendenti. Sui trasferimenti di fondi e tecnologia a favore dei Paesi in via di sviluppo a dire di no sono coloro che hanno prosperato per quasi due secoli devastando il Pianeta. Sugli indennizzi per perdite e danni subiti dalle nazioni più vulnerabili della Terra, idem. 

Neppure sulla deforestazione si è riusciti a raggiungere un risultato, nonostante fosse la prima Cop «alle porte dell’Amazzonia». E di certo non ci si può – di più: non di ci deve! – accontentare del fatto che il testo finale indica una “chiamata” (che non è un imperativo) per triplicare i fondi per l’adattamento al 2035 (cinque anni più tardi rispetto alla bozza precedente). Né del fatto che si lanci un Global Implementation Accelerator (Acceleratore globale per l’implementazione, in italiano), senza spiegare né cosa sia né come funzionerà, ma precisando a chiarissime lettere che sarà a carattere volontario. 

O forse si dovrebbe esultare perché è stato timidamente chiesto ai governi di rivedere le loro promesse di riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra, perché quelle attuali ci porteranno, se va bene, a 2,3-2,5 gradi di riscaldamento globale? O perché è stata lanciata la “Belém Mission to 1.5°C”, anche qui senza spiegare di cosa si tratterà e indicando che comunque se ne riparlerà alla Cop31? O perché, con fatica, si è accettata l’idea di istituire un Just transition mechanism per rafforzare la cooperazione internazionale per una transizione equa? O che l’Unione europea è stata piuttosto collaborativa sulla mitigazione (meno su altri temi)? Sarebbe come accontentarsi perché a un malato di cancro in stadio avanzato è stato concesso un decimo di ciclo di chemioterapia.

All’ultima plenaria a Belém sono volati stracci

Sinceramente, scherziamo? Per giudicare qualcosa è sempre bene fare un paio di passi indietro e osservare la “big picture”. Alla Cop30 si è perfino dovuto tirare un sospiro di sollievo perché è stato citato l’obiettivo di limitare la crescita della temperatura media globale a un massimo di 1,5 gradi centigradi! Obiettivo che era ormai apparso come assodato in passato, anche dopo che l’Ipcc aveva spiegato (nello Special Report 1.5, nell’ottobre del 2018!) che la differenza tra 1,5 e 2 gradi è passare da una crisi a una catastrofe. 

Ciascuno per sé, dicevamo. Ed è così, di fatto, da un decennio (a partire dalla Cop22 di Marrakech). Un egoismo di fondo che finora era stato – non sempre, ma spesso – mascherato dai compromessi e dal bon ton. Che è mancato clamorosamente durante l’ultima plenaria alla Cop30, con alcune nazioni che hanno letteralmente sbattuto i pugni sul tavolo, con accuse reciproche e dita puntate addosso. Come in una riunione di famiglia obbligata nella quale a un certo punto, improvvisamente, tutti i rancori esplodono in modo dirompente. E sì, anche questo in fondo è multilateralismo. Ma intanto il tempo corre, e a furia di accontentarsi di andare a passo d’uomo ci risveglieremo che è troppo tardi (come se non fosse già troppo tardi).

L’elefante nella stanza alla Cop30 di cui non si parla mai

Ma c’era un elefante nella stanza, in quella plenaria, di cui troppo spesso ci dimentichiamo. Perché quel “ciascuno per sé” ha una matrice culturale chiara, rintracciabile indiscutibilmente nel nostro modello di sviluppo. La Cop30 non è stata altro se non lo specchio di un sistema predatorio, colonialista, individualista e orientato al solo obiettivo di massimizzare i profitti, i guadagni personali, gli interessi di parte. Interessi diversi, a volte contrapposti, ma ai quali nessuno vuole rinunciare. È l’economia capitalista e ultra-liberista a spingere in quella direzione: ciascuna nazione ha il mandato, di fatto, di fare ciò che credono sia “meglio” per il loro microcosmo di periferia. 

E no, non è massimalismo, non è estremismo additare il sistema economico. Gli estremisti sono quelli che preferiscono distruggere gli equilibri del Pianeta pur di non rinunciare ai propri privilegi. Unica cosa che interessa davvero. Finché non cambieremo questo sistema di valori, non ne usciremo.

È per questo che arrovellarsi su riforme delle Cop per superare le impasse, forse, è un esercizio inutile, senza una riflessione culturale più ampia. Senza la quale non possiamo far altro che accodarci agli stracci che sono volati alla plenaria conclusiva di Belém e dircelo chiaramente, una volta per tutte: del clima, a troppi governi – perdonate il linguaggio rozzo – non frega davvero niente. 

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L’Onu avverte: siamo sulla traiettoria dei 2,5 gradi di riscaldamento climatico - Andrea Barolini

Gli sforzi e le promesse dei governi di tutto il mondo in materia di lotta ai cambiamenti climatici sono ancora insufficienti. A confermarlo è l’ultima edizione dell’Emissions Gap Report, documento pubblicato ogni anno dal Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep). I calcoli degli esperti dell’Onu indicano che, stanti le promesse fin qui avanzate – contenute nelle Nationally determined contributions (Ndc), si prevede una crescita della temperatura media globale compresa tra 2,3 e 2,5 gradi centigradi, alla fine del secolo rispetto ai livelli pre-industriali. 

Si tratta di una stima che appare migliorata soltanto di poco rispetto a quella di un anno fa, quando lo stesso Unep aveva ipotizzato una forchetta compresa tra 2,6 e 2,8 gradi. Soprattutto, parliamo di una quota di riscaldamento climatico nettamente al di là delle soglie ipotizzate dalla comunità internazionale nell’Accordo di Parigi. Quest’ultimo, infatti, indica che occorre limitare la crescita della temperatura media globale ad un massimo di 2 gradi centigradi, e rimanendo il più possibile vicini agli 1,5 gradi. 

Mezzo grado rappresenta la differenza tra crisi e catastrofe climatica

Nel corso del tempo, le stesse Nazioni Unite hanno d’altra parte spiegato che quel mezzo grado può rappresentare la differenza tra una situazione di crisi e una di catastrofe climatica.

Non solo: le stime dell’Unep si basano come detto sulle Ndc. Ovvero su impegni assunti dai singoli governi, che non è detto vengano rispettati (in tutto o in parte). L’esempio più evidente arriva dagli Stati Uniti, che hanno avanzato in passato delle (timide) promesse di riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra, ma hanno per due volte sconfessato loro stessi, uscendo dapprima nel 2017 dall’Accordo di Parigi, quindi ripetendo la stessa decisione all’inizio di quest’anno (in entrambi i casi le decisioni sono arrivate da Donald Trump).

Le promesse dei governi sono insufficienti

La politica ha dunque un peso enorme sull’azione concreta di contrasto al riscaldamento climatico. «Gli scienziati ci indicano che un superamento temporaneo di 1,5 gradi è ormai inevitabile, a partire, al più tardi, dai primi anni Trenta. E il percorso verso un futuro vivibile diventa ogni giorno più difficile», ha affermato il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres. «Ciò non rappresenta un motivo per arrendersi. È un motivo per intensificare e accelerare gli sforzi. L’obiettivo di 1,5 gradi entro la fine del secolo rimane la nostra stella polare. E la scienza è chiara: è ancora alla nostra portata. Ma solo se aumentiamo in modo significativo le nostre ambizioni».

Commentando invece le nuove Ndc presentate dai governi, Inter Andersen, direttrice esecutiva dell’Unep, ha ricordato che «le nazioni hanno sprecato tre tentativi per mantenere le promesse fatte nell’ambito dell’Accordo di Parigi. Sebbene i piani climatici nazionali abbiano portato alcuni progressi, questi non sono affatto sufficienti. Esistono soluzioni comprovate: dalla rapida crescita delle energie rinnovabili a basso costo alla lotta alle emissioni di metano. Sappiamo cosa bisogna fare. Ora è il momento che i Paesi si impegnino a fondo e investano nel loro futuro con azioni climatiche ambiziose, che garantiscano una crescita economica più rapida, tutelino la salute umana, creino più posti di lavoro, sicurezza energetica e resilienza».

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