martedì 10 giugno 2025

“Voci lontane”: diario di un professore in carcere - Marco Pozzi

Da qualche tempo i lettori di Volere la luna possono leggere la rubrica Noterelle dal carcere, tenuta da “un insegnante in un istituto penitenziario del Paese, non importa quale” (https://volerelaluna.it/autori/tazio-brusasco). L’autore è Tazio Brusasco, che ha raccolto le sue testimonianze e riflessioni in un libro uscito da poco: Voci lontane. Un anno di scuola nel carcere delle Vallette di Torino, Baima Ronchetti editore (https://www.baimaronchetti.it/prodotto/voci-lontane).

Come la rubrica, anche il libro contiene “affreschi di vita quotidiana finalizzati a restituire dignità e umanità a una condizione che spesso non ce l’ha”; il libro contiene tanti affreschi, e ne è anche la cornice, con la storia autobiografica del trasferimento da una scuola a nord di Torino alla scuola all’interno della Casa Circondariale Lorusso e Cutugno di Torino. L’autore si avvicina al nuovo lavoro con prudenza, con un po’ di timore e un po’ d’entusiasmo, fra l’approccio professionale dell’insegnante che deve affrontare un nuovo metodo d’insegnamento e l’essere umano di fronte a un’inedita avventura di vita. Nel libro c’è cronaca degli eventi insieme a riflessioni più generali, che tentano di dare un senso all’esperienza, per affrontarla meglio.

La prima scoperta: «il fatto che la scuola in carcere è una normale scuola per adulti, uguale a quella che si svolge fuori, dura tre anni e ha gli stessi programmi ed esami conclusivi». All’interno dell’istituto Giulio, cioè, alcune classi si svolgono in carcere, in dinamiche, limiti e stimoli molto diversi rispetto alla scuola comunemente conosciuta. Per capirne le differenze – o quantomeno, a immaginarle, a supporle – è utile sospendere momentaneamente il resoconto sul libro e inquadrare il sistema; e a capirci qualcosa aiuta il report annuale dell’associazione Antigone, che dal 1998 monitora le condizioni di detenzione in Italia (https://www.rapportoantigone.it/ventesimo-rapporto-sulle-condizioni-di-detenzione). L’ultima edizione, uscita nel 2024 (https://volerelaluna.it/materiali/2024/08/02/nodo-alla-gola-xx-rapporto-sulle-condizioni-di-detenzione/), è la ventesima, e come al solito riassume dati, considerazioni, testimonianze, dossier tematici che tracciano una panoramica aggiornata ed esaustiva.

Innanzitutto: in Italia sono presenti 189 istituti carcerari, di cui almeno il 20% è stato costruito a inizio Novecento, quindi con bisogno costante di manutenzione e ristrutturazione. Dentro queste strutture, a fine marzo 2024, erano detenute 61.049 persone, ben oltre la capienza ufficiale di 51.178 posti. Come la popolazione italiana, anche la popolazione carceraria sta invecchiando: il 10% oggi ha oltre 60 anni, mentre la fascia più rappresentata è quella compresa tra i 45 e i 59, col 32,2% dei presenti, rispetto al 25,3% di dieci anni fa; nello stesso tempo è calata la fascia con età inferiore ai 35 anni, dal 38,4% al 29,6% attuale. I residui di pena che devono scontare le persone detenute sono aumentati: per residui superiori ai tre anni, ergastolani inclusi, si è passati dal 36,2% dei presenti del 2010 al 43,8% del 2015 al 48,7% del 2023. Eppure, secondo i dati nel Dossier di Ferragosto del Viminale, nei primi sei mesi del 2023 i delitti denunciati dalle forze di polizia all’autorità sono stati 1.228.454, mentre nello stesso periodo del 2022 il numero erano 1.299 350, con una diminuzione del 5,5%. Quindi: meno delitti, pene che aumentano, benché gli ingressi storicamente diminuiscano: 92.800 nel 2008, 43.417 nel 2024.

Fra le tante statistiche, per comprendere meglio anche Voci lontane, si possono citare quelle relative alle persone detenute che studiano, sia per prepararsi al lavoro, sia per colmare lacune e promuovere la crescita personale, elemento indispensabile per il futuro reinserimento in società. A fine giugno 2023, per l’anno scolastico 2022-23, sono stati erogati 1.760 corsi scolastici, con 19.372 persone iscritte (9.002 stranieri) di cui 47,8% ha ottenuto la promozione. Sono attivi inoltre 274 corsi di formazione professionale con 3.359 iscritte (il 5,8% del totale dei reclusi). Nell’anno accademico 2022-23 si contano inoltre 1.458 studenti universitari (1.406 uomini e 52 donne), di cui 1.270 detenuti in 97 istituti penitenziari e 188 in esecuzione penale esterna o fine pena. La Conferenza Nazionale dei Poli Universitari Penitenziari (CNUPP) include 44 università che gestiscono i corsi offerti agli studenti: l’86,9% degli iscritti frequenta un corso di laurea triennale (41 si sono laureati nel nell’anno solare 2022); il 12,9% frequenta un corso di laurea magistrale o a ciclo unico (10 si sono diplomati nel 2022); 2 detenuti sono iscritti a un corso post-laurea. I corsi ricadono nell’area politica sociale (27%) nell’area letteraria-artistica e giuridica (15%), agro-alimentare (12%), scienze, tecnologie, ingegneria, matematica (8%), storico-filosofica (8%), psico-pedagogica (7%), economica (6%), medico-sanitaria (2%).

Ecco, dentro questi numeri si è mosso Tazio Brusasco nella sua esperienza d’insegnante nel carcere della Vallette a Torino, fin dalla prima impressione: «Da quanto inizio a vedere, qui come fuori, oltre a erogare una formazione culturale, la scuola concede tempo alla persona. È il fondamentale tempo della crescita, non segnato da esigenze di performance o frenesie produttive. È libertà, tempo balsamico e fecondo: se non hai capito, mi fermo, anzi ci fermiamo, e ripetiamo. Così si impara ad avere diritto di sbagliare e a essere solidali con chi fatica, una lezione civile. Anche in carcere il vero punto di forza della scuola è il tempo. Di qualità, riflessivo, introspettivo. E gratuito». Attraverso le parole il lettore di Voci lontane potrà scoprire il carcere, l’edilizia, i controlli, il colore dei muri di cinta, gli otto padiglioni, l’ICAM (Istituto a Custodia Attenuata per detenute Madri, con figli fino ai sei anni), il bar, i circa duecento gatti della colonia che animano corridoi e cortili.

Ogni giorno è un’avventura, un resoconto veloce, come in vignette di fumetto, scene da un Candido opposto dove sembra d’esser precipitati nel peggior mondo possibile: il furto di un televisore, il racconto dello spaccio in strada, le confessioni, i collaboratori di giustizia, affettività e sessualità proibite, la persona detenuta con la mamma morente fuori, l’isolamento più forte durante le feste, i tanti suicidi, gli psicofarmaci per non sentire le angosce, per inebetirsi: per sopravvivere e non pensare. C’è la paura di uscire dal carcere per tornare in libertà, senza la forza, le certezze, gli appoggi per poterla affrontare.

Ma nel libro c’è anche ironia, episodi che sembrano di quotidianità per ciascuno di noi, nei corridoi anziché nelle vie, nei cortili anziché nelle piazze, nelle celle anziché nelle case. Perché il carcere è una piccola cittadina, un quartiere a sé, relegato ai margini dalla società, spesso nelle periferie cittadine (com’è appunto a Torino): il torneo di calcio, la preghiera dei detenuti musulmani e i sacerdoti cristiani, la gestione dei soldi con un conto corrente interno per ogni detenuto.

Quanto ancora dovrò stare qui?” è la domanda con cui ci si sveglia al mattino, che rimbomba ad alte frequenze in testa per tutto il giorno, per tutti i giorni di reclusione. Anche l’autore, nel suo ruolo di professore, ascoltando simili confessioni apporta riflessioni a impreziosire la sua esperienza. Si collega all’evoluzione storica della pena, dalla testimonianza di Calpurnio Flacco nel II secolo d.C., a Cesare Beccaria e al suo Dei delitti e delle pene nel 1766, ai pensieri di Michel Foucault sulla nascita di nuovi penitenziari nei tempi della rivoluzione industriale, fino alla sentenza Torreggiani del nostro millennio europeo. Si parla di recidiva, modelli alternativi di scontare la pena; di giustizia riparativa, per far incontrare chi ha compiuto un reato con chi ne ha subito le conseguenze, in un percorso di mediazione progressivo e faticoso; di vittime di reati, e sul ruolo degli agenti carcerari, che sono reclusi come gli stessi reclusi che controllano, condividendo i medesimi spazi e in simbiotiche segregazioni.

Le riflessioni più ampie sono intorno alla scuola: l’utilità del voto, se espresso in numero nudo per la singola prova, oppure in forma di commento che prenda in esame molteplici fattori per prepararsi alla prova; si ragiona sulla necessità per un allievo di sapersi autovalutare, che sia dentro oppure fuori. E intanto si racconta l’organizzazione delle biblioteche nei padiglioni, coi meccanismi di autorizzazioni che spostano libri sui carrelli, in un sistema “porta a porta” (alle Vallette ci sono cinque biblioteche, in un catalogo di circa 25.000 libri e 1.500 audiolibri, nel circuito torinese del prestito interbibliotecario). Alcuni detenuti poi si stanno impegnando per ottenere la laurea, poiché alle Vallette c’è un Polo universitario, dove si studia prevalente scienze politiche e giurisprudenza, con spazi aperti di discussione, e aule per seguire lezioni da docenti e collaboratori dai vari dipartimenti.

L’autore avanza nella scoperta della nuova realtà con spirito prudente, esplorativo, ma con le orecchie tese, la vista aguzza, i sensi pronti, per assorbire quanto più possibile da rielaborare alla ricerca di una qualche saggezza. Nella prefazione lo riconosce anche Elena Lombardi Vallauri, la Direttrice del carcere di Torino: «quella voglia di essere una persona intensamente presente a sé stessa, alla vita, al mondo, alla società, di svolgere il proprio compito con serietà e serena consapevolezza di quanto sia complicato ma non per questo, anzi, non meritevole di tutta la sua buona volontà».

Di solito si recensisce un libro parlando del testo e dell’autore. Per Voci lontane, recensendo il libro, s’ha l’impressione di recensire l’intera popolazione a cui si riferisce, di attingere alle parole, ai pensieri e ai sentimenti delle persone detenute che l’autore ha incontrato, o forse soltanto immaginato. Il libro stesso è la recensione di una condizione di vita, fra mura che staccano dalla società una fetta d’umanità, relegandola in un modellino distorto di vita. Voci lontane non si esaurisce negli aneddoti che riporta, ma lascia intravvedere tutto ciò che intorno a tali eventi aleggia, il diverso tipo d’ossigeno che fa respirare i reclusi. Il titolo poi allude alle “voci”, che arrivano da lontano: che sono lontane, per quanto echi delle nostre stesse voci. Ma sono anche le nostre voci, e in questo libro possiamo ascoltarle.

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lunedì 9 giugno 2025

Il problema non è fare meno figli ma mandare via i pochi che facciamo - Ferdinando Boero

 

Credo che sia una buona notizia che le italiane non facciano più così tanti figli come un tempo. Mentre è una pessima notizia che i figli se ne vadano perché trovano solo lavori sottopagati

 

Ho già scritto sulla demografia del nostro paese, ma si continua a parlarne e quindi riprendo l’argomento. Il ragionamento dominante è: la bomba demografica esiste, ma da noi c’è l’inverno demografico. Dobbiamo fare come gli altri, oppure ci estingueremo.

La popolazione italiana è cresciuta costantemente dal 1951 fino al 2014, raggiungendo un picco di circa 60,3 milioni. A partire dal 2015 si è osservata una diminuzione della popolazione residente, dovuta a un saldo naturale negativo (più decessi che nascite) non completamente compensato dall’immigrazione. L’Italia rimane uno dei paesi più popolosi dell’Unione Europea, ma molti esprimono preoccupazione per l’invecchiamento della popolazione e la bassa natalità.

Quale è il numero ottimale di abitanti nel nostro paese? In ecologia esiste il concetto di capacità portante: il numero massimo di individui che un ecosistema è in grado di sostenere. Raggiunta la capacità portante, la popolazione smette di crescere. Le tecnologie ci permettono di innalzare l’asticella della capacità portante, ma non di rimuoverla. Nessuna specie può crescere all’infinito. Per ridurre il costante aumento numerico e raggiungere l’equilibrio tra il numero di individui e le risorse disponibili bisogna smettere di crescere e, per questo, ci sono vari modi: il primo è di fare meno figli, oppure questi possono morire prematuramente con carestie, malattie, e guerre.

 

Le tecnologie ci permettono di prolungare la vita alleviando carestie e malattie. Se si adotta il sistema di fare meno figli, e si vive più a lungo, ci sarà un periodo in cui gli anziani sono più dei giovani. Quando il surplus di anziani morirà, si riequilibreranno i rapporti tra classi d’età.

C’è un’altra variabile che viene tenuta separata dall’inverno demografico così drammaticamente denunciato: molti dei pochi giovani vanno via perché il paese non ha molto da offrire, soprattutto a chi ha istruzione elevata. Il problema si risolverebbe se facessimo più figli? O aumenterebbero quelli che se ne vanno? La cosa più preoccupante non è che facciamo meno figli ma che espelliamo i pochi che facciamo. La soluzione non è incentivare le nascite, ma valorizzare chi è nato, e l’investimento nella sua formazione. Credo che sia una buona notizia che le italiane non facciano più così tanti figli come un tempo. Mentre è una pessima notizia che i figli se ne vadano perché trovano solo lavori precari e sottopagati, spesso con mansioni non corrispondenti al livello di formazione conseguito. Se gli altri paesi li prendono, significa che il valore esiste, e noi ce lo facciamo scappare: un’emorragia demografica e sapienziale.

Ho già scritto queste cose diverse volte, ma le ripeto perché continuo a sentire preoccupazione per la denatalità e la emigrazione giovanile, ma non sento proposte per affrontare questi due fenomeni assieme, quasi fossero scollegati. La denatalità è socialmente spiegabile con il costante miglioramento della formazione delle donne. Più sono istruite e si realizzano nel lavoro, e meno figli fanno. Vogliono che i loro figli si laureino e si realizzino professionalmente e socialmente. Se questo non avviene… se ne vanno, e fanno ancor meno figli.

L’aumento dell’efficienza delle tecnologie, inclusa l’intelligenza artificiale, rende sempre meno necessaria la forza lavoro. Al posto nostro lavorano le macchine. Ma come la mettiamo in quanto a reddito? Chi non lavora non riceve stipendio e, ovviamente, non fa figli, se ha un minimo di senso di responsabilità. La povertà non è un buon anticoncezionale, se il livello di formazione della popolazione, soprattutto femminile, è basso. Ma da noi le cose stanno diversamente.

 

Che vogliamo fare? E poi sembra che il fatto che si viva più a lungo sia una cattiva notizia. Da una parte ci dicono che la sovrappopolazione è un problema ma poi, se rallentiamo la crescita e tendiamo verso un riequilibrio, ci dicono che non va bene.

La capacità portante non è solo questione di cibo, ma anche di vile denaro. Le tecnologie tolgono opportunità lavorative: non abbiamo bisogno di tutta questa manodopera. Nei campi in cui ne abbiamo bisogno (prima di tutto l’agricoltura) gli stipendi sono bassissimi e si usano gli extracomunitari come schiavi. Meglio se clandestini, così sono ricattabili. Forse si dovrebbero unire i puntini e mettere assieme le variabili, in modo da pianificare interventi che bilancino eventuali squilibri. Per me la prima priorità è il lavoro ai giovani, con un giusto riconoscimento per i livelli di istruzione conseguiti. Invece continuo a leggere interventi che ci dicono di fare più figli, imitando i paesi sottosviluppati.

Ripeto la domanda: ma davvero pensiamo che se facessimo più figli diminuirebbe il numero di giovani che fuggono all’estero? Non viene il dubbio che aumenterebbe? Per trovare soluzioni a un problema bisogna definirne bene i termini, e le interazioni che li collegano. Invece li stiamo trattando uno alla volta, come se fossero indipendenti gli uni dagli altri. Oppure la logica è un’altra: si confida nella guerra come mezzo di riequilibrio, e si incentivano le nascite per incrementare il numero di soldati che, tanto, non diventeranno vecchi. Così sarà risolta la questione delle pensioni. Chi non andrà soldato troverà impiego nell’industria delle armi. E nella produzione di zainetti per sopravvivere 72 ore. Per il cibo basteranno le razioni K.

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domenica 8 giugno 2025

Isole carcere e quella idea di riaprire Alcatraz - Valerio Calzolaio

 

Alcatraz è stata un’isola carcere per meno di trenta anni, fino al 1963. Forse lo tornerà, dopo oltre sessant’anni in cui vi si sono svolte prevalentemente altre attività umane, in quanto set cinematografico o in quanto parco naturalistico aperto al pubblico, perlopiù. L’attuale presidente statunitense Donald Trump si è espresso per farle svolgere di nuovo in futuro la funzione di ecosistema insulare di detenzione. È accaduto all’inizio di maggio, forse prima non era nei programmi elettorali, comunque ora è irrilevante. Tra la sera di domenica 4 maggio 2025 e il giorno successivo (in Europa) è emerso che Trump ha ufficialmente confermato di aver ordinato di ricostruire e riaprire il carcere di Alcatraz, decenni fa rinomata prigione federale situata su quella piccola isola della California. Ha scritto su Truth che il carcere sarà “sostanzialmente ampliato” e poi ospiterà "i criminali più spietati e violenti d'America", per quel che si è potuto capire destinato a contenere persone immigrate negli Stati Uniti in attesa di essere espulse e considerate particolarmente pericolose. 

Che le isole suggeriscano agli umani di relegarci altri umani è dinamica millenaria, forse risale addirittura a prima dell’ostracismo greco e dell’esilio romano. Abbiamo più volte esaminato come, quando e perché, sia valutando storia e geografia antropologica che esaminando singoli casi concretipiù o meno antichi o contemporanei, nel Mediterraneo e altrove.

Le origini di Alcatraz

Alcatraz è una piccolissima isola al largo della costa statunitense del Pacifico, appartiene alla municipalità di San Francisco e dista meno di due chilometri dalla metropoli. Ha un’estensione di circa 85 ettari (0,085 km2) e un’altezza massima di 40 metri sul livello del mare. Formatasi nel Cretacico (circa 100 milioni di anni fa) risulta composta prevalentemente di arenaria e di ardesia, non ha fonti d’acqua naturale e il suo suolo roccioso rende ardua ogni coltivazione: solo poche specie resistono naturalmente grazie alla rugiada e alla pioggia. Il primo colonizzatore spagnolo a documentarne l’esistenza fu Juan Manuel de Ayala, che mappò la baia nel 1775 e la nominò Isla de los Alcatraces per l’enorme numero di pellicani che vi sostava. L’isola fece poi parte del governatorato messicano, finché fu comprata nel 1846 dalla Repubblica della California che la destinò a uso dell’esercito. Nel 1850 divenne base di artiglieria a protezione della baia. 

Da fortezza militare a prigione

Successivamente vennero eretti una fortezza militare, un arsenale, una prigione militare (anche per gli sconfitti della guerra civile e i nativi americani), il tunnel di collegamento interno e un faro marittimo. A fine Ottocento intervennero parziali modifiche del piccolo ecosistema con l’introduzione di alberi, di piante esotiche, dei primi giardini con fiori e arbusti (acanti, ninfee, agavi, gerani, more, eucalipti, cipressi) e di piante da frutta. La prigione militare venne più volte ristrutturata, ammodernata e ampliata, finché il complesso fu trasformato in un penitenziario civile federale di massima sicurezza, anche per ospitare detenuti reputati problematici. L’11 agosto 1934 arrivarono i primi 137 detenuti del nuovo penitenziario, collocati in minuscole celle singole. Il personale era di 155 guardie (per taluni con alloggi per le famiglie). Le condizioni regolamentari (soprattutto quella del silenzio) erano molto pesanti. Negli anni successivi il carcere ospitò fra gli altri Al Capone (Alphonse Gabriel Capone, 1899-1947). Quattordici furono i tentativi di evasione (riusciti solo, forse, in un paio di casi). 

L’isola carcere per antonomasia

Per un trentennio Alcatraz e stata adibita esclusivamente a istituto di pena, diventando The Rock (La Roccia), l’isola carcere per antonomasia, fino alla chiusura, intervenuta il 21 marzo 1963 per gli elevati costi di gestione, legati al trasporto degli alimenti, dell’acqua potabile e di ogni altro prodotto. Le piante sono state abbandonate. Le poche residue specie vegetali forniscono di nuovo occasione per nidificazione di uccelli, in particolare marini (cormorani, gabbiani), oltre che per roditori e lumache. Dal 1972 la flora dell’isola risulta protetta. Dopo la chiusura, tra la fine del 1969 e l’inizio del 1971, l’isola fu occupata da nativi americani, infine sgombrati, pur avendo il presidente Nixon affermato di voler rivedere la politica di segregazione degli indiani. Il carcere e stato successivamente aperto al pubblico per visite guidate, attualmente gestite dal National Park Service

Come noto e forse visto, sono ispirati o ambientati ad Alcatraz decine di film e documentari statunitensi, qualche telefilm, innumerevoli videogiochi, episodi di romanzi, molte biografie. In particolare l’isola è entrata nell’immaginario collettivo di centinaia di milioni di persone, come emblema dell’esasperazione delle pene detentive, grazie al film Fuga da Alcatraz (1979) del regista Don Siegel con Clint Eastwood, ispirato alla tentata (forse riuscita) evasione reale, avvenuta l’11 giugno 1962, di Frank Morris e dei fratelli John e Clarence Anglin (che, scavando con un cucchiaio di metallo montato su un trapano elettrico ricavato dal motore di un aspirapolvere rubato, riuscirono a entrare in un condotto di areazione e a fuggire). Il rapporto ufficiale stabilì che i tre evasi erano annegati ma, secondo alcuni allora e successive ricostruzioni, almeno i due fratelli Anglin sarebbero riusciti a raggiungere il Brasile. 

Per girare quelle scene sull’isola proprio negli anni Settanta del secolo scorso si dovette ricostruire una rete elettrica lunga quindici miglia al fine di far di nuovo arrivare l’elettricità dalla terraferma; inoltre, furono necessari complicati lavori per ripristinare lo stato della prigione com’era al momento della chiusura. Al termine del film più famoso, molti dei miglioramenti apportati furono mantenuti intatti e permangono tuttora. La scena del pericoloso passaggio dalle cancellate della prigione fino alla spiaggia e in acqua non fu girata con controfigure, ma proprio dai tre interpreti, che si erano lungamente e adeguatamente preparati. Prima e dopo il film con Eastwood sono usciti molti articoli, saggi e volumi sull’isola carcere di Alcaraz, alimentando sia ricostruzioni veritiere che narrative fantasiose sui famosi criminali che vi sono stato coercitivamente ospitati nel trentennio detentivo e su alcuni “casi” che l’anno vista materialmente coinvolta.

Riattivare le isole come carceri: ne siamo sicuri?

Dopo il 4-5 maggio 2025 buio, la notizia non è più riapparsa. Fin dal primo momento è emerso un probabile paradosso: la “seria” volontà del presidente Trump c’era sicuro, un altrettanto seria capacità forse non si verificherà mai. Inoltre, alcuni commentatori hanno rilevato pure la volontà contingente di distogliere l’attenzione dagli scadenti risultati economici dei primi mesi della nuova presidenza. Peraltro, come noto, le carceri negli Usa sono un prodotto commerciale, la percentuale di popolazione che vi è forzatamente ospitata è incomparabile con altre democrazie europee e la gestione amministrativa è molto spesso privata. Rendere Alcatraz nuovamente funzionante necessiterebbe di un investimento enorme, probabilmente ingiustificabile rispetto al ristretto numero di detenuti che riuscirebbe poi concretamente a contenere. Già nel 1963 fu chiusa proprio perché i costi di gestione e manutenzione erano altissimi. Come emerse in rapporti tecnici e servizi giornalistici, alla fine degli anni Cinquanta si spendevano circa 10 dollari al giorno per prigioniero, contro i 3 dollari di media per gli altri penitenziari federali.

Il 4 maggio Trump ha motivato l’idea con il fatto (improbabile allo stato attuale delle conoscenze) che da Alcatraz nessuno sarebbe mai scappato. Dopo l’annuncio dei primi di maggio non vi sono state altre notizie ufficiali. Negli Stati Uniti attuali anche frasi istituzionali hanno spesso un valore effimero, talvolta l’obiettivo si esaurisce con il pronunciamento mediatico, talaltra la realizzazione pratica degli obiettivi annunciati si rivela incerta nelle forme, lunga nei tempi e complicata nell’interlocuzione con altri poteri pubblici rilevanti. Questa dinamica politica non è esclusiva degli Usa contemporanei, vedremo. Resta l’importanza del gesto e gli interrogativi del tema: le isole sono il posto ideale per detenere i cattivi conviventi? Il doppio (o triplo) isolamento insulare è l’unico o il principale modo per garantire una funzione antropica a quegli ecosistemi? È il caso di ricominciare a pensarci securitariamente in ogni bacino oceanico e mare del pianeta, da parte di altri stati? Pianosa va definitivamente riaperta come isola carcere?

Dopo la “fuga” del giugno 1962 (su cui sono state scritte decine di migliaia di pagine, mai con esiti incontrovertibili, a parte i film) resta il fatto che l’isola carcere di Alcatraz fu chiusa, definitivamente già dall'anno successivo, rimanendo inattiva fino a quando il National Park Service non iniziò a convertirla in un museo nel 1972. Da allora, l'ex prigione ha attirato più di un milione di visitatori all'anno, diventando uno dei siti più popolari del Parco Nazionale, secondo la Golden Gate National Parks Conservancy. Il presidente Trump ha dichiarato i primi di maggio che "rappresenta qualcosa di forte, di molto potente in termini di legge e ordine. Il nostro Paese ha bisogno di legge e ordine; Alcatraz è, direi, il massimo… Vedremo se riusciremo a ripristinarla in grande stile, ad aggiungere molto". Widner, nipote degli Anglin “fuggiti”, ha visitato Alcatraz molte volte e ha sostenuto ora che non gli piace l'ipotesi di smantellare il museo per far tornare Alcatraz un grande carcere: "Penso che sia una cattiva idea", ha detto Widner. "Si perderebbe molta storia lì".

Archeologia e storia delle isole carcere risultano invero ottimi argomenti di ricerca antropologica e geografica nel mondo. E di impegno civile e istituzionale. Meglio sarebbe chiudere tutte quelle ancora aperte, pensiamo al leader curdo Abdullah Ocalan rinchiuso dal 1999 sull’isola carcere di Imrali, pensiamo (in Italia) alla piccola isola di Favignana: un edificio carcerario sicuro non pure circondato dal mare è più che sufficiente a garantire le esigenze di giustizia e di pena costituzionale in uno stato moderno. Ovviamente, ben vengano parchi e musei sulle isole, scientificamente accompagnati da tracce della complessa memoria degli antichissimi e recenti “usi detentivi” degli ecosistemi insulari, soprattutto nel Mediterraneo, integrati dalla narrazione autobiografica di chi vi fu detenuto (come Nelson Mandela a Robben Island in Sudafrica

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sabato 7 giugno 2025

Istituto superiore di Noventa Vicentina usa i soldi contro la dispersione scolastica per un corso paramilitare - Alex Corlazzoli

 

 

All’istituto di istruzione superiore “Masotto” di Noventa Vicentina, i soldi del Pnrr per “ridurre i divari territoriali” sono stati destinati ad una sorta di club sportivo paramilitare che organizza corsi di tiro e che ogni anno riunisce i veterani dei vari reparti, “per far rivivere loro le esperienze di quando erano operativi e per farsi conoscere da chi vorrebbe intraprendere la loro strada”.

Stiamo parlando di Alpha 22 Training Service al quale la dirigente della scuola Maria Paola De Agelis e il Consiglio d’istituto hanno affidato 15.868,80 euro per percorsi formativi di team building. Una spesa sostenuta grazie ai fondi europei per le azioni di prevenzione e contrasto alla dispersione scolastica. Un affidamento diretto “per effettiva assenza di alternative sul territorio”.

Aprendo il sito di Alpha 22 Training Service appare una scena di guerra e la fotografia del militare in congedo Luca Munaretto con tanto di armi e il motto: “Il guerriero non tenta di sembrare, egli è. Conosce il proprio valore e non lotta mai con chi non merita l’onore del combattimento”, dello scrittore Paulo Coelho. Due righe sotto spiegano gli obiettivi di Alpha 22 Training Center: “Mettere a disposizione la propria esperienza e le competenze acquisite, per far raggiungere una nuova dimensione dei corsi proposti. Il costante aggiornamento degli istruttori nelle varie tecniche, garantisce risultati immediati e personalizzati. Prendersi cura dei nostri associati e delle loro esigenze, è il nostro obiettivo primario”. Perlustrando il sito si trova, poi, cosa viene organizzato per le scuole: esercizi riconducibili al mondo del survival. Una volta arrivati in sede, i ragazzi vengono privati dei loro telefoni cellulari, viene fatto un inquadramento generale dell’area di interesse dedicata alla loro esperienza outdoor e degli istruttori che li guideranno in diverse attività.

Un progetto che un’altra volta non è piaciuto all’osservatorio contro la militarizzazione delle scuole che in un comunicato ufficiale scrive: “Senza entrare nella questione e nelle procedure riguardanti l’opportunità di utilizzare e di concedere esternamente fondi Pnrr destinati al contrasto della dispersione scolastica, troviamo assurdo e pericoloso che una scuola affidi più di 15mila euro ad una ditta paramilitare che istruisce alla guerra, che permette la familiarità e la normalizzazione di scenari di guerra, che maneggia strumenti di morte come armi corte e armi lunghe senza il minimo ritegno sulla sofferenza che l’ideologia di guerra sta causando sotto i nostri occhi in diverse zone del mondo. Ci chiediamo come sia possibile che una scuola pubblica, che dovrebbe educare alla pace, alla convivenza civile, al Team Building mediante l’educazione alla cooperazione, alla nonviolenza e alla solidarietà, possa avere legami così stretti, con strutture paramilitari private intrise di ideologia bellica, addestrativa, in cui vi è un continuo sfoggio iconografico di armi da guerra”.

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venerdì 6 giugno 2025

due lettere dal Niger - Mauro Armanino

Scampati al deserto, Traoré Ali e Ousmane non rinunciano ai loro sogni e ne hanno fatto una foresta - 

La foresta dei sogni confiscati offre riparo e cittadinanza alle utopie e a quelle che alcuni bollano come ‘illusioni’

Sono entrambi originari della Costa d’Avorio ed è per me come un piacevole ‘giocare in casa’. Non si dimentica mai il primo amore. Sbarcato in questo Paese nel millennio scorso, dal 1976 al ’78, la prima volta nel continente africano. Il ritmo della lingua, i luoghi e lo stile sono riconoscibili ad occhio e orecchio nudo.

Traoré, di mestiere panettiere e pasticciere nella città di Man, nel nord ovest della Costa d’Avorio. Parte l’anno scorso, coi suoi 32 anni e una famiglia lasciata a casa, per inventarsi un futuro diverso e più luminoso di quello che si trova tra le mani che impastano povertà e nulla più. Derubato come tutti i migranti dai gruppi armati nel Mali, raggiunge l’Algeria e lavora prima come panettiere e poi, al solito, in un cantiere edile ‘cinese’ della capitale. Al momento di ritirare il frutto del suo lavoro arriva ‘casualmente’ la polizia che spoglia i migranti di tutti gli averi, li arresta e li deporta a Tamanrasset in un centro di detenzione. Da lì, lui e gli altri saranno condotti al confine col Niger, in un luogo desertico che bisognerà attraversare per raggiungere la prima cittadina abitata, Assamaka.

Ali ha invece 19 anni. Non ha potuto terminare la scuola elementare e fatica a leggere e scrivere in francese. In Costa d’Avorio era apprendista riparatore di frigoriferi e climatizzatori. Vorrebbe imparare meglio il mestiere e mettere da parte il capitale per viaggiare in Europa, dove i sogni si infrangono sulle coste o ancora prima di raggiungere il mare. Per questo passa un paio di settimane in Tunisia. Il tempo di essere deportato in Algeria e da lì, come Traoré suo compatriota, gettato nella fascia di deserto che non separa affatto l’Algeria dal Niger. Lui e Traoré mettono assieme i sogni confiscati dal sistema che stima né utile né sopportabile accettare chi non si adegua alle norme stabilite di sparizione programmata dei giovani per luogo di nascita.

Ali e Traoré sono tra le migliaia di giovani che inventano, tessono, rischiano sogni non esportabili o delegabili ad altri. Assumono il rischio dell’incomprensione, della persecuzione e financo dell’eliminazione dei giovani che osano un futuro fuori dalle regole stabilite dal sistema dominante. Diventano, malgrado loro, rivelatori di violenza. La stessa che accompagna da decenni la Democratica Repubblica del Congo, ex Zaire, di Moboutu Sese Seko, dittatore liquidato poi dai Grandi.

Ousmane di 23 anni, imbianchino senza lavoro. Abbandona la capitale dove ha il dubbio di essere inghiottito dal nulla per la nascita in una famiglia numerosa per andare, con un sogno nascosto negli occhi, a sfidare il Mediterraneo. Sarà invece il mare di sabbia, il Sahara, nome che significa, per l’appunto, mare che pone una barriera invalicabile al suo andare. Passato il deserto algerino sarà catturato, spogliato degli averi e imbarcato, assieme agli altri e come pacchi postali, sul camion fino alla frontiera di sabbia col Niger. Ousmane e i due avoriani passano qualche giorno ad Assamaka, saturata con migliaia di migranti espulsi dall’ Algeria, la Tunisia, la Libia e il Marocco. L’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni, a nome delle Nazioni Unite, è in difficoltà per accogliere, nutrire e ricondurre i migranti ai rispettivi Paesi di origine. Questa è la ragione per la quale i tre amici hanno raggiunto fortunosamente la capitale Niamey. Scampati al deserto, Traoré, Ali e Ousmane non vogliono chiudere i loro giorni in un labirinto umanitario che assomiglia fin troppo all’anticamera dell’inferno.

I sogni confiscati dal sistema non vanno affatto perduti perché sono come semi che seppelliti nel letame dei potenti, a loro insaputa, crescono e prosperano. Senza darlo a vedere e ispirati da innumerevoli poeti scomparsi, si sono messi assieme. Stagione dopo stagione e albero dopo albero si è andata formando una foresta che nessuna cartina o rilevamento dall’alto potrà identificare. La foresta dei sogni confiscati offre riparo e cittadinanza alle utopie e a quelle che alcuni bollano come ‘illusioni’. Dentro la foresta si trovano gruppi di bambini che giocano con gli animali e inseguono farfalle di ogni tipo. Al centro del bosco c’è una sorgente d’acqua perenne che disseta i sogni e li affida, come preziosa eredità, al vento cha passa ogni mattina di buonora.

da qui


L’isola dei bambini mai arrivati – La lettera di P. Mauro

Molti di loro sono certamente passati dal Niger, Terra di Mezzo. Li abbiamo incontrati e poi dimenticati . Erano accompagnati da uno o entrambi i genitori oppure confusi tra fratelli, amici e conoscenti d’occasione. Hanno attraversato non si sa come il deserto e, per gli strani sentieri del destino, sono riusciti ad imbarcarsi e tentare il Mare di Mezzo, il Mediterraneo. Secondo l’ultimo rapporto dell’agenzia ONU per la protezione dell’infanzia, l’UNICEF, in dieci anni, circa 3500 bambini hanno perso la vita nel mare, sulla rotta del Mediterraneo centrale.

Questa porzione di mare è riconosciuta come la frontiera più mortale del mondo.

Ciò significa, sempre per il rapporto citato, che in questi ultimi 10 anni ogni giorno un bambino è scomparso nel mare. Mancava perfino la mano di uno dei genitori a dare l’ultimo aiuto.

Sette bambini su dieci che hanno effettuato la traversata viaggiavano soli.

Quanti sono giunti sull’altra riva e interrogati hanno confessato che, durante il viaggio, molti di loro hanno sofferto violenze fisiche e altri sono stati arbitrariamente detenuti. Sono fuggiti da guerre, conflitti, violenze, miseria e soprattutto l’abbandono di una parte d’Africa che ha tradito e venduto il loro futuro ai commercianti di vite umane.

I bambini fanno parte delle oltre 20mila persone morte o disperse nel corso egli ultimi dieci anni nello stesso Mare.

L’isola dei bambini si è creata da sé, come per caso, un giorno feriale di un anno che nessuno ricorda.

Il numero degli piccoli migranti mai arrivati aumentava al quotidiano e si rese necessario, col tempo, organizzare la vita della colonia e far sentire i nuovi arrivati come a casa loro. All’inizio non è stato facile perchè i bambini cercavano di imitare quello che ricordavano della società dei grandi. Armi, guerre, muri come frontiere e parole armate generatrici di violenza e divisione. Si organizzò dunque una prima assemblea consultativa aperta a tutti i residenti senza distinzione. Si decise all’unanimità che l’isola sarebbe stata guidata senza più tener conto del sistema creato dai grandi.

Inventarono strade, cortili, piazze, giochi e feste. Alcuni dei più grandi che già avevano imparato un mestiere si industriarono a trasmettere ad altri il loro sapere. Le bambine più grandi organizzavano la cucina, la cura dei più piccoli e rallegravano la vita dell’isola con canti e danze improvvisate. L’isola dei bambini mai arrivati era anch’essa migrante e, in realtà, non andava da nessuna parte. Si muoveva, invisibile o visibile secondo le stagioni e, come esse, mutevole nei colori e nella forma. Quando, da lontano, spuntava un’imbarcazione i bambini migranti innalzavano una bandiera inesistente e accendevano fuochi sperando che il fumo avrebbe segnalato la loro presenza.

L’isola è ben là fino a tutt’oggi e continua a ricevere nuovi ospiti ai quali viene chiesto il nome, l’età e il Paese di origine. Nel caso di neonati i nomi sono scelti a seconda dei giorni di sole, di pioggia e di vento. Non c’è una rotta prestabilita perché l’isola inventa ogni giorno nuovi orizzonti e c’è chi giura d’averla vista passare ma c’era nebbia quel giorno. Alcuni dei primi residenti immaginano che un giorno l’isola dei bambini si trasformerà in un continente che avrà dimenticato per sempre l’arte della guerra.

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giovedì 5 giugno 2025

Il Bovaro dell’Arkansas e il Duomo -Miguel Martinez

Una discussione tra i commenti sul blog, sul tema “overtourism“.

Peucezio, di Milano, scrive:

“Cioè, ragazzi, ma ci rendiamo conto che fino a non moltissimi anni fa io entravo in Duomo con la stessa disinvoltura con cui entravo nella Galleria Vittorio Emanuele, potevo girarmelo come volevo, concentrarmi su un particolare, dirmi una preghiera
Oggi devo fare la fila e pagare per visitarlo e devo fare una fila più piccola per andare a pregare, ma posso pregare solo in un’area limitata?
Io che vivo a Milano da mezzo secolo tondo.
E questo perché dei coglioni di americani e altra gente varia vengono in massa a rompere i coglioni.”

Gli risponde Roberto:

“per me la gente colta e sensibile non ha nessun merito né diritto in più del bovaro dell’Arkansas o di dove vuoi tu”

Sono due posizioni che abbiamo sentito molto volte. Inoppugnabili all’apparenza, ma mancano alcune premesse fondamentali.

Uno, non stiamo parlando dello stesso diritto.

Il Duomo di Milano esiste, perché ha avuto una funzioneSpazio sacro e civico, di una comunità sotto Dio. E ovviamente anche autocelebrazione un po’ vanitosa della Comunità stessa, che investiva nella Casa (domus) Comune un’energia che non dedicava nemmeno lontanamente ai palazzi privati.

Queste funzioni oggi sono molto più deboli, ma Peucezio sta cercando di viverle.

La funzione, sfondo per selfie di masse di individui che vengono per un momento e poi escono per non tornare mai più, è qualcosa di completamente diverso.

La seconda funzione rende impossibile la prima.

Tu prima andavi in un orto, per raccogliere i pomodori. Adesso è stato trasformato in un vespasiano pubblico. Che problema c’è, basta che fai la fila anche tu. Sì, ma io ci andavo per raccogliere i pomodori.

Due, oltre al diritto di Peucezio e quello del Bovaro, esiste un terzo diritto: quello della ragazza di Matera che con un concorso ha appena vinto un posto come infermiera in un ospedale di Milano. Ma non può svolgere il proprio lavoro, perché a causa dell’overtourism, i prezzi delle case sono diventati inaccessibili. Lei dovrà rinunciare al proprio lavoro, e i pazienti dovranno rinunciare a essere curati, per far posto al diritto del Bovaro, ma soprattutto al diritto dei padroni di casa (spesso grandi fondi di investimento) di scegliere affitti brevi a bovari contro affitti lunghi a infermiere (“la Proprietà è Sacra”, ci ricordano Salvini e la Santanchè).

Qui Roberto risponde,

“Capisco ma […] non c’è scritto da nessuna parte che uno debba vivere dove lavora (per dire io abito a mezz’ora di macchina da dove lavoro perché non posso permettermi un posto più vicino)”

In effetti, con il prezzo dei voli low cost, l’infermiera potrebbe probabilmente partire tutte le mattine con il volo delle 3.32 da Matera e rientrare con quello delle 23.51.

Tre, la questione dei rapporti di forza.

Roberto scrive:

“Ragazzi io capisco il problema, se poteste suggerire soluzioni che non abbiano questo gusto mefitico di classismo (il turismo è riservato alle Classi alte, ai colti e agli abbienti) vi ascolterei con più interesse”

E’ quella che io chiamerei la posizione archetipica della Destra realmente esistente: gli “snob della Ztl, i ricchi con due lauree, disprezzano e vogliono far soffrire le Persone Normali che Lavorano“. Un immaginario che si nutre anche di antiche idee di Sinistra sui potenti che si arricchiscono sfruttando i poveri.

E’ la carta vincente di Salvini e di Trump, ma è una carta truccata, e vi spiego perché.

Sembra che ci sia un Ricco e Colto di nome Peucezio, probabilmente con la erre moscia, che è infastidito dalla vicinanza di un bovaro del Arkansas che puzza lievemente di sterco di vacca, e quindi gli impedisce con la forza di ammirare le guglie del Duomo di Milano. Da fargli subito la lotta di classe, e la rivolta populista pure!

Io mi sono abituato, per forza di cose, a guardare però i reali rapporti di forza.

Ve lo racconto con una storiella di fantasia.

Peucezio, geniale linguista dalla vita economica precaria, privo di ogni potere politico, si sfoga sul blog di Miguel Martinez, traduttore di manuali tecnici, un blog con venticinque lettori.

Dall’altra parte, non c’è il Bovaro dell’Arkansas.

C’è la Fun Cool World Tour. La loro sede organizzativa è questa:

Ma la sede legale è 35 Notax Drive, West Bay, Cayman Islands.

La Fun Cool ha appena acquistato da una ditta con sede a Lamezia Terme e a Dubai, un isolato a due passi dal Duomo di Milano, e lo ha ribattezzato Duomo Experience Residence.

A vegliare affinché ogni cosa fili liscio, ci pensa lo Studio Legale Fratelli Squalo, che cura anche gli interessi della banca che finanzia Forza Italia, quelli della fondazione dove lavora la sorella del responsabile comunale per i progetti edilizi, e quelli della Cooperativa Inclusion che sostiene il PD.

La Fun Cool è stata contattata da Joe Wayne. Un signore da poco eletto governatore repubblicano dell’Arkansas grazie a un finanziamento di centomila dollari da parte della Cattle Rancher Federation, con sede a New Bovary.

I Bovari hanno chiesto che Wayne autorizzasse l’alimentazione delle vacche con antibiotici vietati in mezzo mondo; e come piccolo regalo in più, un viaggio studio a spese dello Stato per i loro dirigenti.

La prima richiesta era un viaggio per soli uomini all’Isola di Phuket, ma le Republican Moms for a Traditional Family si sono opposte fermamente, e quindi Joe Wayne ha chiesto aiuto ai suoi amici della Fun Cool. Che avendo da coprire i costi del nuovo acquisto, hanno suggerito come destinazione proprio la neonata Duomo Experience Residence.

Ecco perché Peucezio mentre accendeva la candelina in Duomo, si è trovato inquadrato anche lui nel flash dell’autoscatto del Bovaro dell’Arkansas. Il Bovaro si consola per il mancato viaggio a Phuket, almeno con la foto della candelina.

Dal sito Partyphuket:

“Una holiday girlfriend è una ragazza che affitti per essere la tua girlfriend durante le tue vacanze.

Si tratta spesso di una ragazza del posto, di solito una studentessa o barista, a volte anche una ragazza normale con un lavoro, che prende qualche giorno o settimana libero per viaggiare con te.

Ci sono molti ottimi posti nella capitale del Regno per incontrare e affittare una holiday girlfriend tailandese, come i club per soli uomini.

Il posto che consigliamo sempre ai nostri ospiti è The PIMP [lett. il Magnaccia] Bangkok.”

da qui


mercoledì 4 giugno 2025

APPELLO PER LA MANIFESTAZIONE A PARMA CONTRO I NUOVI OGM E NON SOLO

Di Gruppo No-OGM


Cambiare il Campo è un gruppo di attiviste e attivisti, contadine e contadini, di diverse zone d’Italia, provenienti da diverse realtà, gruppi, collettivi e associazioni, rurali e cittadine che lavorano per unire le forze e per difendere e sviluppare i sistemi agroecologici di produzione, distribuzione e consumo del cibo.

Ci rivolgiamo a contadine e contadini, consumatrici e consumatori, associazioni, gruppi d’acquisto, comunità di supporto dell’agricoltura, empori solidali, aziende e cooperative, tecnici agricoli, ricercatrici e ricercatori responsabili, per costruire un’opposizione comune contro l’avanzare dei nuovi OGM (TEA, NBT, NGT).

Diciamo SÌ all’agricoltura contadina agroecologica, diffusa sui territori, di prossimità e svincolata dal capitale finanziario, che produce un cibo sano, non inquina e non distrugge l’ambiente.

Diciamo SÌ al favorire la rigenerazione naturale della biodiversità, alla conservazione del suolo e dell’acqua, vere ricchezze delle comunità ed efficaci difese dalle avversità.

SÌ al fondamentale diritto dei contadini e delle contadine di conservare, riprodurre, selezionare partecipativamente e scambiare liberamente le proprie sementi.

Diciamo SÌ all’autodeterminazione alimentare, alla costruzione di reti di piccola scala basate su relazioni di solidarietà e mutualismo, a sostegno dell’agricoltura contadina, col lavoro della terra in autogestione collettiva, non schiava delle leggi di mercato.

Sosteniamo le realtà contadine, preservandole dalla scomparsa ed incentivando il ritorno alla terra per l’agroecologia in contrapposizione alle multinazionali dell’agricoltura e dell’alimentazione industriale.

Diciamo NO all’agricoltura 4.0 e alle altre soluzioni tecnoindustriali per la sperimentazione, la coltivazione e la deregolamentazione degli organismi geneticamente modificati: TEA (Tecniche di Evoluzione Assistita), NBT (New Breeding Techniques) o NGT (New Genetic Techniques), tutti nuovi nomi per nascondere quel che già ci fu propinato e contro i quali lottammo con successo 30 anni fa, i vecchi OGM.

Diciamo NO al cibo prodotto in laboratorio, non vogliamo essere le cavie di questa deriva scientista!

Diciamo NO al saccheggio e alla distruzione dei beni ambientali, alla “digitalizzazione” dell’attività agricola, sempre più dispendiosa, inquinante ed energivora.

Non possiamo rimanere indifferenti al perpetrarsi dell’ennesima soluzione tecnologica per risolvere problemi provocati proprio da tecnologie e metodi chimico-industriali.

Forti interessi lobbistici condizionano la politica, l’informazione e i grandi sindacati agricoli, le molteplici agenzie per la sicurezza alimentare, ambientale e per lo sviluppo agricolo, nonché gran parte della ricerca pubblica e privata.

La violenza operata dai sistemi di potere e la loro indifferenza per la salute pubblica è sempre più evidente e opprimente sulle nostre vite.

Ci ritroveremo a Parma, dove ha sede l’Agenzia europea per la sicurezza alimentare (EFSA), che sta giocando un ruolo importante nei processi di deregolamentazione dei nuovi OGM e di manipolazione genetica di piante e animali.

A Parma dove ha sede l’azienda biologica Podere Stuard, attualmente al centro dell’allarmante situazione che la vede protagonista della sperimentazione in campo di pomodori geneticamente modificati.

Vi invitiamo ad una partecipazione popolare: fermare l’avanzata dei nuovi OGM che minacciano ambiente, sistemi alimentari e salute pubblica è cosa urgente !

SABATO 14 GIUGNO 2025, VIENI A PARMA!

Faremo un corteo e ci sarà cibo, musica, teatro e performaces.

Ritrovo alle ore 15:30 davanti alla Stazione FS, piazza Carlo Alberto Dalla Chiesa, per muoversi attraverso la città fino al Parco Ex Eridania.

CAMBIARE IL CAMPO!

Per la Convergenza Agroecologica e Sociale

Per informazioni, passaggi ed eventuale ospitalità a Parma scrivi a

no-ogm@cambiareilcampo.org


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Scarica qui il volantino ad alta risoluzione per stampa poster 50x70cm (5 MB)

Scarica qui il volantino ad alta risoluzione per stampa fronte/retro o 2 pagine con immagine e testo (7 MB)

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