venerdì 12 dicembre 2025

Caos errori ed orrori al San Raffele - S.I.COBAS

Solo il sensazionalismo mediatico sembra gettare luce su condizioni di degrado sanitario ed umano che sono quotidiane, immanenti, inevitabili, preparate e volute ma non casuali.

Cosi come non si improvvisano la gestione delle cure intensive, cosi lo sprofondo documentato al San Raffaele non è un incidente casuale: è invece  il portato  di scelte gestionali a sua volta originate da un’idea di sanità piegata al profitto.

   

Al San Raffaele si consuma l’atto finale di una deriva del SSN che con le lotte degli anni ’60 e ’70 si voleva universale e gratuito. 

Con l’irruzione di un capitalismo sui generis che anziché investire risorse proprie ha fagocitato le risorse pubbliche ed ha fatto della salute un territorio per le sue scorrerie affaristiche.


La salute  da non mercanteggiare, la salute da preservare per  tutti  e soprattutto dei più poveri  è un principio che a Milano ma poi in tutta Italia va sostituendosi con la logica del “ti curi se hai i soldi”.   

Una sanità non uguale più per tutti ma a misura di portafoglio.

Ed ecco che lo scadimento assistenziale si raccorda con il cinismo del capitale che stabilisce prezzi e tariffe a secondo delle disponibilità individuali.

Ed ecco che la sanità diventa preda di ditte fintamente onlus, fintamente religiose,  fintamente cooperative. 

Ma la concorrenza tra i predoni, progressivamente, fa emergere società di taglia sempre più grande.  La concentrazione dei capitali opera anche in questo settore e fa emergere colossi come il Gruppo San Donato SPA che controlla a sua volta il San Raffaele.

L’appalto alle cooperative ha il vantaggio dei costi contenuti del personale, rispetto ad un personale professionale che ha lo svantaggio di costare di più. La qualità assistenziale è deprezzata di conseguenza.

 

La gestione del San Raffaele ha solo portato alle estreme scelte  proprie del  registro Profitti e Perdite.

 

Ed ecco che il concentramento, voluto dalla direzione del San Raffaele,  delle cooperative nei reparti che si occupano, guarda caso, dei malati “non paganti” ma bisognosi di cure intensive, non è un blackout momentaneo è un lucido disegno di un capitale che non ha coscienza sociale. La sua coscienza si misura in quote di capitale che devono essere crescenti.

  

A conferma di ciò alle dimissioni dell’Amministratore Unico Francesco Galli (che passa a dirigere altre strutture sanitarie e ad assumere quindi altre cooperative), subentra un ingegnere, Marco Centenari con una formazione non certamente sanitaria ma certamente più attrezzato a limitare le spese (del personale) e massimizzare i guadagni societari della Spa.  

 

Man mano che il clamore della caotica giornata va spegnendosi e le luci natalizie si accendono l’assessore alla Sanità  Guido Bertolaso rassicura  che il San Raffaele è “ un vero fiore all’occhiello della sanità italiana ed è fisiologico che ogni giorno possano presentarsi criticità" 

Tra i fiori critici bisogna annoverare: la terapia delle ore 18 somministrata alle 24, la terapia antibiotica non somministrata, gli esami del sangue non effettuati, allo squillare del campanello l’infermiere (può arrivare) dopo mezzora e il medico dopo due ore e mezzo che nel frattempo si rende conto che gli esami ematici del mattino non sono stati fatti, gli esami  vengono eseguiti a mezzogiorno ma a mezzanotte si scopre che alcune provette si sono perse. Un’infermiera della cooperativa rivela di  che non aver mai fatto l’affiancamento, un’altra dichiara che non sapeva dove cercare i farmaci né di saper caricare gli esami né di saper gestire la ventilazione assistita … l’elenco potrebbero continuare! Ma può bastare,

Per fortuna “la Madonnina che brilla da lassù” questa volta ha scongiurato drammi ancora più gravi. 

 

Ma intanto è Natale e la stella cometa riposa sul San Raffaele. Ma non brilla!

 

Sindacato Intercategoriale Cobas 



giovedì 11 dicembre 2025

“Lo 0,01% ha tre volte più ricchezza della metà più povera dell’umanità. Ma la disuguaglianza non è inevitabile: è una scelta politica dei governi” - Chiara Brusini

 

Il World Inequality Report 2026 del World Inequality Lab, co-diretto da Thomas Piketty con Emmanuel Saez e Gabriel Zucman alla guida scientifica, conferma che quando i governi rinunciano alla progressività fiscale e alla redistribuzione i divari tra ricchi e poveri si allargano. E rilancia la proposta di una tassa minima per i miliardari

 

La lotta alla disuguaglianza, ormai un’emergenza globale, non può e non deve essere solo materia su cui si esercitano think tank e convegni accademici. È una scelta politica ed è la politica a doversene assumere la responsabilità. È il messaggio che arriva dal World Inequality Report 2026, la nuova indagine del World Inequality Lab, osservatorio co-diretto da Lucas ChancelThomas Piketty e Rowaida Moshrif, con Facundo AlvaredoEmmanuel Saez e Gabriel Zucman alla guida scientifica: il gotha mondiale della ricerca sul tema. La loro analisi aggiornata conferma ancora una volta che quando i governi rinunciano alla progressività fiscale e alla redistribuzione, i divari tra ricchi e poveri si allargano. E oggi i sistemi di tassazione di gran parte dei Paesi avanzati contribuiscono a quell’allargamento, perché consentono a chi si piazza in cima alla piramide dei redditi di pagare molto meno degli altri.

“La storia, l’esperienza dei diversi Paesi e la teoria mostrano che l’attuale livello estremo di disuguaglianza non è inevitabile. Una fiscalità progressiva, forti investimenti sociali, standard di lavoro equi e istituzioni democratiche hanno ridotto i divari in passato e possono farlo di nuovo”, scrivono nella prefazione l’economista Jayati Ghosh e il premio Nobel Joseph Stiglitz, tra gli esperti a loro volta incaricati dalla presidenza sudafricana del G20 di stilare un rapporto ad hoc. “Il World Inequality Report fornisce la base empirica e la cornice intellettuale per capire come intervenire”.

 

Il 37% della ricchezza globale all’1% più ricco

Oggi, calcola il World Inequality Lab nel suo terzo rapporto basato sul lavoro di 200 accademici, il 10% più ricco della popolazione mondiale incassa il 53% del reddito totale e detiene il 75% della ricchezza mentre la metà più povera si ferma rispettivamente all’8% e al 2%. Non è una “legge naturale dell’economia”. Sono le conseguenze cumulative di scelte politiche: riduzione dell’imposizione sui più abbienti, tagli al welfare, arretramento dello Stato come garante di servizi e investimenti collettivi. È il punto di caduta di un trentennio (1995-2025) durante il quale il 50% più indigente ha intercettato appena l’1,1% dell’incremento totale della ricchezza globale a fronte del 37% che è finito in tasca all’1% più ricco. E in Italia? La disuguaglianza risulta in aumento lento ma costante. Negli ultimi dieci anni il rapporto tra il reddito medio del top 10% e quello della metà più povera è salito da 14 a 15. Oggi il 10% più ricco assorbe circa il 32% del reddito totale, mentre il 50% più povero si ferma al 21%. Sul fronte patrimoniale le distanze sono molto più accentuate: il top 10% possiede il 56% della ricchezza nazionale e l’1% supera da solo il 22%.

Il fisco iniquo

Il fisco ha fatto la sua parte: in molti Paesi i miliardari finiscono per pagare aliquote effettive quasi nulle grazie a elusione e strutture societarie che permettono di posticipare o evitare la distribuzione di dividendi e la realizzazione di plusvalenze in modo da non generare reddito tassabile. In media, a livello globale versano circa il 20%, ben al di sotto rispetto alla pressione fiscale subita da contribuenti con redditi medi. Anche quando sono soggetti a imposizione, del resto, i guadagni in conto capitale sono tassati meno del lavoro. Il risultato è che dagli anni Novanta la ricchezza dei multi-milionari è triplicata e lo 0,001% – circa 60mila persone, che starebbero comodamente in uno stadio – controllano tre volte più denaro della metà più povera dell’umanità, composta da 2,8 miliardi di persone.


I divari tra regioni

Un adulto medio in Nord America e Oceania dispone di un reddito pari al 290% della media mondiale e di un patrimonio che arriva al 338% della media. In Europa le percentuali sono più basse (215 e 224% rispettivamente) ma comunque abbondantemente sopra la media globale. All’estremo opposto, in Africa subsahariana l’adulto medio sopravvive con un reddito pari al 30% del livello mondiale e una ricchezza che non arriva al 20%. In concreto, ogni giorno un cittadino statunitense dispone di circa 125 euro, contro i 10 euro di un abitante dell’Africa subsahariana. Anche all’interno di ciascun continente la frattura tra ricchi e poveri è estrema: in Russia e Asia centrale il top 10% guadagna 141 volte il reddito medio della metà più povera, in Nord America e Oceania il rapporto è 72 a 1 e in Europa, il continente più egualitario, il divario è comunque 19 a 1. Quanto alla ricchezza, in tutte le regioni il 10% più abbiente controlla ben oltre la metà di quella complessiva.

La disuguaglianza come scelta politica

“La disuguaglianza non è un destino, ma una scelta”, ribadiscono Ghosh e Stiglitz nella chiusa della loro introduzione. Dove i sistemi pubblici restano più robusti, infatti, tasse e trasferimenti riescono a ridurre le disuguaglianze in modo significativo. Vale a dire che se il gap aumenta è perché la politica ha deciso di stare a guardare, invece di adottare misure per affrontare il problema. Le vie per farlo sono numerose: investimenti pubblici in istruzione e salute, che secondo gli autori sono “tra i più potenti strumenti di riequilibrio”, trasferimenti monetari e sussidi di disoccupazione insieme a supporti mirati ai nuclei vulnerabili, riduzione dei gap di genere. E ovviamente politiche fiscali.

Perché serve una tassa minima globale sui miliardari

Una tassa minima globale su miliardari e centimiliardari sul modello di quella proposta da Gabriel Zucman ed elaborata dal suo Eu Tax Observatorydiscussa anche dai leader del G20, sarebbe “tecnicamente realizzabile, gestibile sul piano amministrativo e politicamente trasformativa”. Fissando l’aliquota al 2% la regressività al vertice verrebbe neutralizzata e portandola al 3% il sistema tornerebbe progressivo. Al tempo stesso i governi potrebbero raccogliere cifre pari rispettivamente allo 0,45% o allo 0,67% del pil mondiale con cui finanziare investimenti decisivi in istruzione, sanità e adattamento climatico, settori penalizzati dai bilanci pubblici “magri” dei Paesi occidentali e sottofinanziati da sempre in quelli più poveri. Basti dire che nel 2025 la spesa pubblica per istruzione per ogni giovane tra 0 e 24 anni è stata di 220 euro in Africa subsahariana, contro i 7.430 euro dell’Europa e i 9.020 del Nord America.

I ricchi responsabili della crisi climatica

Il tema climatico è un’altra bomba politica. Il 10% più ricco del mondo è responsabile del 77% delle emissioni legate alla proprietà di capitale e del 47% di quelle da consumo. La metà più povera non supera il 3% e il 10%, rispettivamente. Ma chi contribuisce meno alla crisi climatica è anche chi ne paga il prezzo più alto: secondo il rapporto, le famiglie a basso reddito sopportano il 75% delle perdite economiche globali legate al riscaldamento. Anche in questo caso, le soluzioni – se c’è la volontà politica – non mancano. Sovvenzioni climatiche mirate, combinate con una tassazione progressiva, possono accelerare l’adozione di tecnologie a basse emissioni. E tasse ad hoc accompagnate a paletti sui consumi di lusso e sugli investimenti ad alta intensità di carbonio possono contribuire a ridurre le emissioni dei Paperoni.

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mercoledì 10 dicembre 2025

Spagna, in Catalogna dopo lo sciopero degli affitti la Generalitat acquista 1.700 appartamenti: li manterrà come alloggi sociali - Victor Serri

 

Le abitazioni, costruite con fondi pubblici, andavano incontro alla scadenza del periodo di "protezione" e avrebbero potuto alimentare speculazioni del settore immobiliare. Per questo il Sindacato degli Inquilini aveva avviato la protesta in diverse città, e ora saluta l'azione del governo regionale come un "risultato storico"

 

Uno sciopero degli affitti ha spinto le istituzioni a intervenire contro la crisi abitativa in Catalogna. La Generalitat ha infatti annunciato l’acquisto di 1.700 appartamenti di InmoCaixa, il ramo immobiliare di La Caixa, una delle principali banche catalane. Una decisione che mette fine a un processo di privatizzazione che minacciava la stabilità abitativa di centinaia di famiglie. Con questa operazione, il patrimonio pubblico incorpora definitivamente alloggi che, pur essendo stati costruiti come edilizia di protezione ufficiale, rischiavano di essere sottratti ai vincoli pubblici e immessi sul mercato libero, con conseguenze pesanti per gli inquilini. Secondo il Sindicat de Llogateres (il sindacato degli inquilini), si tratta di “un risultato storico reso possibile solo dalla pressione popolare e dalla determinazione delle famiglie in lotta”.

Per capire la portata di questa decisione, occorre ricordare che molti immobili gestiti da InmoCaixa erano stati realizzati grazie a fondi pubblici e sottoposti per anni al regime di “casa di protezione ufficiale”, l’equivalente delle case popolari. Questo regime impone affitti calmierati, limiti sul prezzo e obblighi di destinazione sociale. Tuttavia, allo scadere del periodo di protezione — che varia di solito tra 20 e 30 anni — gli alloggi possono essere “desqualificati”, cioè liberati dai vincoli pubblici. A quel punto la proprietà è libera di vendere gli appartamenti a prezzi di mercato o aumentare drasticamente gli affitti. Si tratta di un meccanismo legale, ma che negli ultimi anni ha aggravato la crisi abitativa in molte città catalane, trasformando progressivamente un patrimonio nato come sociale in merce immobiliare destinata alla speculazione.

InmoCaixa ha gestito questa transizione come molti altri operatori finanziari: in prossimità della scadenza dei vincoli, ha smesso di rinnovare i contratti agevolati, ha aumentato la pressione sugli inquilini e, secondo numerose testimonianze, ha scaricato su di loro persino il pagamento dell’IBI, l’imposta sugli immobili. Quando è apparso chiaro che interi blocchi residenziali sarebbero stati venduti o che gli affitti sarebbero cresciuti in modo insostenibile, la tensione sociale è esplosa.

In questo contesto il Sindicat de Llogateres ha messo in piedi una strategia complessa e tenace. Organizzando le famiglie minacciate dalla privatizzazione, ha promosso una mobilitazione senza precedenti: uno sciopero degli affitti. In diverse città colpite dal processo — tra cui Banyoles, Mollet, Sitges e Palau-solità i Plegamans — decine di nuclei familiari hanno aderito, trattenendo migliaia di euro di canoni come forma di pressione. La loro richiesta era semplice e radicale: che quegli alloggi, costruiti con fondi pubblici, rimanessero patrimonio pubblico e venissero sottratti definitivamente alla speculazione.

Ora la Generalitat ha scelto di rispondere acquistando gli immobili e “blindandoli” come alloggi sociali permanenti. Una scelta politica di peso, che non risolve solo un conflitto locale ma interviene sulla concezione stessa della casa come diritto. Per molte famiglie l’annuncio rappresenta la fine di un incubo. “Senza la lotta degli inquilini questa operazione non sarebbe mai esistita”, sottolinea il Sindicat, che parla apertamente di una vittoria popolare ottenuta contro uno dei maggiori attori finanziari del Paese. “Abbiamo dimostrato che quando le istituzioni non intervengono, l’organizzazione dal basso diventa l’unica difesa del diritto all’abitare”.

Il governo catalano ha presentato l’acquisto come parte di una strategia più ampia per ampliare rapidamente il parco di alloggi sociali, considerata una via più efficace rispetto alla sola costruzione di nuove case. Ma il Sindicat avverte che la battaglia non è finita: chiede il ritiro delle cause giudiziarie contro gli scioperanti, la revisione dei contratti a condizioni eque, la garanzia di una manutenzione adeguata e il rimborso delle somme pagate indebitamente negli anni precedenti.

Nonostante le questioni ancora aperte, la portata materiale e simbolica della decisione è enorme. In una Catalogna in cui la crisi abitativa è diventata una delle emergenze sociali più gravi, il “salvataggio” di 1.700 appartamenti significa molto più che proteggere alcune famiglie: rappresenta un precedente politico che dimostra come la logica del mercato possa essere contrastata dall’intervento pubblico — purché sostenuto, e questo è il punto decisivo, dalla forza organizzata di chi quelle case le abita ogni giorno.

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martedì 9 dicembre 2025

L’economia sarda resiste, ma i talenti scappano: in due anni via quasi 10mila giovani - Luigi Barnaba Frigoli


Il rapporto Svimez 2025: il Pil regionale, pur rallentando, resta positivo. Cresce l’occupazione. L’Isola però rimane nella «trappola» della denatalità e dei neolaureati in fuga

L’economia della Sardegna rallenta, ma resiste a crisi, dazi e altri sconvolgimenti economici e finanziari. Ciò che invece desta sempre più preoccupazione è la costante e pressoché inarrestabile fuga di giovani talenti.

È quanto evidenzia il nuovo rapporto dell’agenzia per lo sviluppo del Mezzogiorno Svimez, appena presentato.

Come accennato, l’Isola non arretra: tra il 2021 e il 2024 il Prodotto interno lordo regionale ha fatto registrare una variazione complessiva del +8,4%, anche se il rallentamento dell’economia isolana è nei fatti. Se nel 2021 il Pil regionale era infatti cresciuto dell’8,5%, nel 2022 si è scesi a +6,2%, nel 2023 a 1,1% e lo scorso anno a 0,9%.

Le performance migliori – sottolinea il report – sono soprattutto quelle dell’industria e delle costruzioni. In apparenza bene anche l’agricoltura (4,8%), che deve però fare i conti con un calo di occupati pari all’11,1%.

L’occupazione in Sardegna è complessivamente in aumento (+5,1%), ma, come accennato, l’allarme riguarda in particolare i giovani: il tasso di disoccupazione giovanile nell’Isola nel 2024 era infatti pari al 23%, mentre tra 2022 e 2024 hanno lasciato la Sardegna ben 9.491 persone nella fascia d’età 25-34 anni, di cui 5.164 per trasferirsi al Centro-Nord e 4.327 per trasferirsi all’estero.

Numeri ancor più allarmanti se associati a quelli degli emigrati totali dall’Isola tra il 2005 e il 2024 (20mila persone) e alla denatalità e al calo della della popolazione, che solo lo scorso anno è stato pari a 9.152 unità.

II commento di Svimez al fenomeno non lascia dubbi: la Sardegna, con Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Molise e Sicilia è una «regione in trappola», perché «il calo della popolazione attiva è accentuato, le percentuali di laureati sono nettamente inferiori alla media europea e la migrazione giovanile è ormai una tendenza consolidata, a conferma della persistente fragilità strutturale del Mezzogiorno».

Il Pil che tiene oppure che cresce e l’occupazione che aumenta, con il contraltare della fuga di giovani e di talenti, caratterizza infatti - rimarca il rapporto - tutti i territori del Sud e delle Isole.

Anche in questo caso i dati sono eloquenti: il Prodotto interno lordo del Mezzogiorno ha registrato negli ultimi anni un balzo in avanti formidabile, pari all'8,5% contro il +5,8% del Centro-Nord. Numeri quasi da record, stemperati però dalle 175mila persone totali, soprattutto giovani, che hanno lasciato il Meridione e le Isole per trasferirsi al Nord o all’estero.

«Per trattenere i giovani – tira le somme il report Svimez -, il Sud deve attivare filiere produttive ad alta intensità di conoscenza, rafforzare la base industriale innovativa e integrare formazione superiore, ricerca e politiche industriali. Senza un salto di qualità nella domanda di competenze, la mobilità giovanile continuerà a essere una scelta obbligata».

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lunedì 8 dicembre 2025

Glifosato, ritirato dopo 25 anni lo studio diventato “pietra miliare” che difendeva l’erbicida Roundup - Luisiana Gaita

Il caporedattore della rivista che lo pubblicò, Martin van Den Berg, spiega le ragioni della scelta: "I dipendenti della Monsanto potrebbero aver contribuito alla scrittura dell’articolo" senza essere citati

A 25 anni dalla sua pubblicazione, la rivista scientifica Regulatory Toxicology and Pharmacology ritira lo studio, pubblicato nel 2000, secondo cui il glifosato, potente erbicida commercializzato dalla Monsanto con il nome di Roundup, non era dannoso. Autori dello studio, intitolato ‘Valutazione della sicurezza e valutazione del rischio del roundup di erbicidi e del suo ingrediente attivo, glifosato, per gli esseri umani’ sono Gary Williams del New York Medical College, l’unico tuttora in vita, Robert Kroes dell’Università di Utrecht (Olanda) e Ian Munro, che lavorava per la società di consulenze canadese Cantox, oggi Intertek. Nel documento, giungevano alla conclusione che l’erbicida a base di glifosato della Monsanto non rappresentava alcun rischio per la salute umana, né per quanto riguarda il cancro, né per eventuali effetti negativi sul sistema riproduttivo ed endocrino. E quel documento è stato citato, negli anni, da centinaia di ricerche successive (ma anche da autorità di regolamentazione come l’Agenzia per la protezione ambientale, ndr). Tanto da diventare, come dichiarato dalla stessa rivista che lo aveva pubblicato “una pietra miliare nella valutazione della sicurezza del glifosato”. Dopo “un’indagine approfondita”, il caporedattore della rivista, Martin van Den Berg, ha ritirato lo studio e ha spiegato le ragioni di questa scelta. In sintesi, “gravi preoccupazioni etiche riguardanti l’indipendenza e la responsabilità degli autori di questo articolo e l’integrità accademica degli studi sulla cancerogenicità presentati”.

Il nodo dell’autorizzazione in Unione Europea

Resta, ora, il dubbio sul peso che ha avuto per un quarto di secolo anche nelle valutazioni delle autorità che hanno regolato l’utilizzo del glifosato per il quale l’Unione europea ha rinnovato nel 2023 l’autorizzazione (Leggi l’approfondimento). Giova ricordare, inoltre, che il 19 novembre scorso, la Corte di giustizia dell’Unione europea ha stabilito che la Commissione Ue non può concedere proroghe delle autorizzazioni per i pesticidi in modo automatico, in caso di ritardi nel processo di rivalutazione. La Corte si è espressa sui ricorsi presentati dalla ong Pollinis France contro la proroga del periodo di approvazione del boscalid, da Pan Europe per la dimossistrobina e da Aurelia Stiftung per il glifosato. In questo contesto, arriva la decisione presa da Regulatory Toxicology and Pharmacology di ritirare lo studio, indicando le motivazioni, anche alla luce del fatto che il co-autore Gary M. Williams non ha fornito alcuna spiegazione alle domande poste da Martin van Den Berg. Tra le ragioni (e le relative domande rimaste senza alcuna risposta), anche documenti aziendali della Monsanto venuti alla luce negli ultimi anni, durante i contenzioni intentati da cittadini statunitensi che si sono ammalati di cancro.

Studio incompleto e dubbi sull’indipendenza degli autori

Come riportato nella nota del capo redattore della rivista, le conclusioni dell’articolo ora ritirato si basano esclusivamente su studi inediti della Monsanto. Nel corso della stesura, tra l’altro, sono stati ignorati diversi studi sui temi della tossicità cronica e della cancerogenicità pure già disponibili. Non solo: alcuni documenti e e-mail inviate da dipendenti della Monsanto venuti alla luce negli ultimi anni “suggeriscono che gli autori dell’articolo non erano gli unici responsabili della scrittura del suo contenuto”. Quella corrispondenza, anzi, rivela che “i dipendenti della Monsanto potrebbero aver contribuito alla scrittura dell’articolo” senza essere citati come coautori. E la mancanza di chiarezza su quali parti sono state scritte dai dipendenti della Monsanto crea incertezza sull’integrità delle conclusioni tratte. Non è poco, dato che l’articolo afferma l’assenza di cancerogenicità associata al glifosato o alla sua formulazione tecnica, Roundup. Ergo: “Non è chiaro quanto delle conclusioni degli autori siano state influenzate da contributi esterni di Monsanto”. “Questa mancanza di trasparenza – scrive Martin van Den Berg – solleva serie preoccupazioni etiche riguardanti l’indipendenza e la responsabilità degli autori di questo articolo e l’integrità accademica degli studi sulla cancerogenicità presentati”. Di fatto, esiste altra corrispondenza divulgata durante un contenzioso che indica come gli autori potrebbero aver ricevuto un “risarcimento finanziario” da Monsanto per il loro lavoro su questo articolo. “Il potenziale compenso finanziario – scrive sempre il caporedattore della rivista – solleva significative preoccupazioni etiche e mette in discussione l’apparente obiettività accademica degli autori in questa pubblicazione”.

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domenica 7 dicembre 2025

Migranti, l’Ue vota sui Paesi terzi sicuri. Ma la “fortezza” immaginata da von der Leyen finirà nei tribunali, ecco perché - Franz Baraggino


Altro che sanare il Protocollo Italia-Albania: la proposta della Commissione Ue – sostenuta da popolari ed estrema destra – ha ben altri piani. Cambiando la definizione di “Paese terzo sicuro”, punta a rendere inammissibili le domande d’asilo e a trasferire i richiedenti, mettendo a rischio i diritti fondamentali e la stessa convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati. Una deriva “palesemente illegittima”, secondo l’esperto di migrazioni internazionali Gianfranco Schiavone, che mira a liberare l’Unione dai suoi obblighi giuridici violando le norme sul funzionamento dell’Ue, e destinata quindi a un inevitabile scontro nelle aule di tribunale e fino alla Corte di giustizia.

L’esperimento italiano in Albania ha già mostrato i suoi limiti ai partner europei. Con la giurisdizione italiana resta in vigore il diritto Ue, ma il patto con Tirana non consente di garantire le tutele che, almeno sulla carta, si possono rivendicare in Italia. Nemmeno l’atteso Patto europeo sull’asilo, operativo da giugno, supera l’ostacolo. Per questo la proposta della Commissione guidata da Ursula von der Leyen vuole affidare i richiedenti direttamente a Paesi terzi. Basterà che, nel viaggio verso l’Europa, siano passati da un Paese considerato sicuro per dichiarare inammissibili le loro domande di asilo e trasferirli altrove, anche senza un reale legame con quello Stato. E se il transito non è dimostrabile, basterà un accordo – anche informale – con un Paese terzo. Al voto mercoledì 3 dicembre in Commissione Libertà civili, Giustizia e Affari interni (LIBE), la proposta ha i voti del Partito popolare europeo, dei conservatori di ECR, ma anche dei Patrioti e dei sovranisti dell’ESN. Difficile che le cose cambino in plenaria a Strasburgo.

Lo scontro, prevedibilmente, si sposterà nei tribunali. Ma su quali basi? La convenzione del 1951 prevede la possibilità di collaborazione tra Stati quando si tratta di alleggerire un Paese da un onere che non può ragionevolmente sostenere in modo adeguato. Ma se lo scopo è liberarsi degli obblighi di protezione, si tratta di esternalizzazione ed è illecito. Col 73% dei rifugiati in Paesi a medio o basso reddito, il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Michael O’Flaherty, ricorda che gli Stati europei sono spesso tra i Paesi col più alto Pil pro capite, hanno sistemi di asilo più solidi e un numero relativamente basso di rifugiati e richiedenti: “Difficile capire come il trasferimento dagli Stati europei in altri Paesi – soprattutto se questi non hanno le capacità di accoglienza e i mezzi di protezione necessari – non equivalga a un trasferimento di responsabilità”.

Certo, i Paesi terzi riceveranno ingenti finanziamenti. Ma pagare non basta, come ha dimostrato la Corte Suprema britannica bocciando il memorandum tra Regno Unito e Ruanda. “Anche con investimenti pesanti nel sistema di asilo del Paese terzo, si tratterebbe di un’impresa complessa che richiederebbe molto tempo per produrre risultati sufficienti”, avverte il Commissario O’Flaherty. Anche l’Unhcr, l’Agenzia Onu custode della convenzione di Ginevra, ammette che, in condizioni specifiche, un trasferimento può essere legale, ma ribadisce che servono garanzie concrete e standard elevati. Senza tali garanzie – ha sempre precisato – “l’Unhcr rimane fermamente contrario agli accordi che mirano a trasferire rifugiati e richiedenti asilo”. Peggio ancora se si tratta di accordi informali: “Gli accordi di trasferimento dovrebbero essere accessibili al pubblico e incorporati nell’ordinamento giuridico degli Stati partecipanti”, ha scritto l’Unhcr ad agosto nella guida ‘Accordi internazionali per il trasferimento di rifugiati e richiedenti asilo’.

Quanto a garanzie, il nuovo regolamento Ue sembra adottare una nozione piuttosto debole di “protezione effettiva“, considerandola valida anche in Stati che non hanno ratificato la convenzione o che non garantiscono uno status giuridico di protezione e l’accesso ai diritti, “ma solo la possibilità di essere temporaneamente tollerati”, spiega Schiavone. “Senza la garanzia di uno status giuridico le persone rischiano di finire in un limbo senza limiti di tempo”. Pericolo tanto più concreto se gli accordi non sono giuridicamente vincolanti e le persone vengono trasferite in Paesi coi quali non hanno alcun legame. Nel commentare la proposta della Commissione, l’Unhcr ha chiesto accordi vincolanti, procedure rigorose, tutele legali come la sospensione automatica del trasferimento in caso di ricorso giuridico e protezioni specifiche per i soggetti vulnerabili, tutte condizioni oggi assenti. Ma le destre non hanno sentito ragioni e il testo è rimasto praticamente invariato.

Inascoltata in Parlamento, che ruolo potrà avere l’Agenzia quando si tratterà di controllare? Se Donald Trump le ha tagliato i fondi, l’Ue finanzia l’Unhcr solo per progetti coerenti con le proprie politiche migratorie, per lo più in Nord Africa. E mentre la capacità dell’Agenzia di vigilare si riduce, i governi la usano spesso come una foglia di fico. Così non resta che il controllo giurisdizionale. Senza modifiche, avverte Schiavone, “le nuove norme non potranno non essere impugnate davanti ai tribunali nazionali”. I possibili rilievi vanno dalla violazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Ue che garantisce, tra gli altri, il diritto d’asilo “nel rispetto delle norme stabilite dalla convenzione di Ginevra”, al contrasto col Trattato sul funzionamento dell’Unione, che impone piena conformità alla convenzione. Toccherà ai giudici, ancora una volta, decidere se fermare i trasferimenti e rinviare tutto alla Corte di giustizia europea.

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Paesi sicuri, Strada: “Disastro del Ppe, è la fine del diritto d’asilo. Ma la sanatoria sull’Albania non c’è” , intervista di Franz Baraggino 

L’europarlamentare del Pd Cecilia Strada, relatrice ombra per i Socialisti e Democratici sui dossier “paesi terzi sicuri” e “paesi sicuri d’origine” in esame alla Commissione LIBE del Parlamento Ue, esprime profonda preoccupazione in vista del voto di mercoledì 3 dicembre. Definisce la situazione un “disastro politico” in cui i parlamentari del Partito popolare europeo (Ppe) si allineano all’estrema destra su testi che rappresentano “la fine del diritto d’asilo in Europa”. Un approccio che sta portando l’Unione Europea a “violare lo spirito della Convenzione di Ginevra sui rifugiati”.

Strada, qual è il punto politico sui dossier al voto alla Commissione LIBE?
Il punto in cui siamo è un disastro. Il Ppe sta lavorando totalmente insieme all’estrema destra su questi temi. Gli stessi popolari che teoricamente dovrebbero stare con il campo progressista e invece, sulla questione migratoria, guardano solo ed esclusivamente da quella parte.

La negoziazione com’è andata?
Nessuno dei tentativi di negoziare da parte del campo progressista è stato accettato. I relatori hanno ripreso sostanzialmente invariata la proposta della Commissione e hanno rifiutato qualunque tentativo di mediare con noi per cambiare il testo e renderlo vagamente più umano. Andiamo a votare testi che sono tremendi.

La vera novità sta nel nuovo concetto di “paese terzo sicuro”.
Mentre il concetto di Paese d’origine sicuro ha a che fare con l’esame della richiesta di protezione, col concetto di Paese terzo sicuro l’Ue non entra nemmeno nel merito della tua domanda d’asilo. Ti dice che potresti anche aver diritto alla protezione, essere un rifugiato, ma non qui. E se l’Europa decide che avresti potuto fare domanda altrove, anche dove sei semplicemente transitato, o che potresti presentarla in un Paese col quale ha preso accordi, verrai trasferito, punto. E’ la rinuncia al nostro obbligo di protezione, delegato a paesi terzi coi quali ci si mette d’accordo. E’ di fatto la fine del diritto d’asilo in Europa, e ci prendiamo anche dei rischi.

Quali?
Perché Paesi che hanno più problemi di noi dovrebbero accettare i richiedenti asilo che noi non vogliamo gestire, se non per soldi o altri vantaggi? Sicuramente non per spirito di fratellanza.

Dunque?
Dunque l‘Europa diventa ricattabile, tra l’altro senza prevedere alcuna specifica sul tipo di accordi, che possono essere i soliti memorandum informali e non vincolanti. Cosa succederà quando questi paesi terzi vorranno di più, vorranno rinegoziare, vorranno più soldi o più vantaggi? Situazioni già viste in Turchia ma anche in Tunisia. Oltre al fatto che in sostanza ci apprestiamo a spostare persone attraverso i confini in cambio di soldi, come sul confine tra la stessa Tunisia e la Libia, dove le persone vengono vendute e spostate. Non è ciò che che condanniamo come traffico di esseri umani?

Le nuove norme risolveranno i problemi del Protocollo Italia-Albania come dice il governo?
Né il testo sui Paesi d’origine, né quello sui Paesi terzi sicuri sanerà quell’accordo. Il governo è arrivato a considerare quelli in Albania come trasferimenti da un Cpr all’altro, come fossimo in Italia. Ma nonostante la giurisdizione italiana, l’extraterritorialità non ha permesso di garantire le tutele previste dalla normativa dell’Unione: le alternative al trattenimento, ma anche l’eccesso effettivo a diritti come quello alla salute, all’unità familiare, a una difesa effettiva.

In Europa i flussi migratori non stanno aumentando, come mai resiste l’urgenza normativa?
Non c’è nessuna urgenza, è la stessa agenzia europea Frontex che ci fa vedere come i flussi stanno diminuendo. Ma da almeno dieci anni le persone migranti sono lo strumento sul quale si è fatto propaganda per vincere le elezioni a qualunque costo, e distrarre le persone dalle garanzie sui propri diritti, da una sanità degna di questo nome al fatto che stiamo indebitando i nostri figli e i nostri nipoti per comprare armi.

Le opposizioni sono pronte per proporre soluzioni alternative sui migranti?
Secondo me siamo abbastanza pronti se smettiamo di aver paura di perdere le elezioni su questo tema e quindi se smettiamo di inseguire la destra. Non è mai una buona idea inseguire la destra sulla propria agenda: tra la copia e l’originale la gente vota l’originale o se ne sta a casa.

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sabato 6 dicembre 2025

Le insidie della legge sull’acqua: «un lupo travestito da agnello» - Laura Buconi

 

Trasportatori e contadini hanno bloccato le strade per protestare contro la riforma della Ley de Aguas (legge sull’acqua) con cui il governo federale promette di seppellire la “legge salinista”, promulgata dall’allora presidente Salinas de Gortari nel 1992 che ha trasformato l’acqua in merce.

La tensione ha diviso le opinioni. Le autorità hanno assicurato che questa nuova legge garantirà finalmente il diritto umano all’acqua e toglierà i privilegi storici ai grandi concessionari. “Che l’acqua smetta di essere vista come una merce e sia riconosciuta come un diritto umano”, ha insistito il ministro della Commissione Nazionale dell’Acqua (Conagua), Efraín Morales López.

Ma dal punto di vista dei cittadini, l’esperta Elena Burns analizza l’iniziativa e lancia un allarme: è “un lupo travestito da agnello”. L’ex vicedirettrice della Conagua, nota per aver dimezzato le concessioni alle grandi aziende durante la sua gestione, assicura che il progetto mantiene un modello “privatizzatore ed estrattivista”. È d’accordo con il Controllo Nazionale Autonomo dell’Acqua (CNAA), che denuncia che la proposta è stata approvata dalla stessa Conagua, omettendo gli accordi di 16 Parlamenti Cittadini Aperti.

Al centro della controversia c’è la questione se la legge smantellerà davvero il sistema che per 33 anni ha permesso alle grandi industrie di accaparrarsi 600 mila concessioni – rispetto alle 2 mila iniziali – mentre le comunità rurali soffrono di carenza idrica; o se, sotto una retorica dei diritti umani, si perfezionerà semplicemente lo stesso meccanismo di appropriazione, ora con più potere concentrato in una Conagua nota per la sua opacità e corruzione.

L’illusione della riforma: cambiamenti superficiali, strutture intatte

La promessa ufficiale sembra convincente: sostituire la Legge sulle acque nazionali del 1992 – che durante il sessennio di Salinas de Gortari ha trasformato l’acqua in un bene commerciabile – con una nuova Legge generale sulle acque che dia priorità al diritto umano. Tuttavia, la CNAA avverte che si tratta di “un tentativo di perpetuare la legge salinista, con modifiche minime”.

La proposta di legge mantiene le strutture e i meccanismi che per tre decenni hanno provocato lo sfruttamento eccessivo delle falde acquifere, l’inquinamento e l’emarginazione idrica di ampi settori della popolazione. Peggio ancora, secondo la CNAA, «include un capitolo dedicato a “promuovere e incoraggiare” la privatizzazione delle opere idrauliche e consente la privatizzazione dei sistemi idrici e fognari», contraddicendo frontalmente il discorso ufficiale sulla demercificazione.

Il processo legislativo evidenzia questa contraddizione fondamentale. Mentre le autorità parlano di inclusione, il progetto della Conagua è stato approvato dalla stessa istituzione, omettendo completamente le proposte dei cittadini generate in 16 Parlamenti Aperti. Elena Burns, che ha raccolto questi accordi, sottolinea l’incoerenza di mantenere due leggi simultanee: “Non ha senso dal punto di vista costituzionale avere due leggi, soprattutto quando una legge afferma che l’acqua deve essere riconosciuta come un diritto umano e l’altra determina chi ha accesso all’acqua e manterrà il sistema così com’è”.

La CNAA deplora che il progetto mantenga i Consigli di bacino, «dove sono rappresentati solo i grandi concessionari, come unica istanza di coordinamento tra governo e cittadini». Multinazionali come Coca-Cola, grandi birrifici e aziende minerarie continuano ad avere voce in capitolo, mentre vengono esclusi i popoli indigeni, i sistemi comunitari e le comunità colpite dall’inquinamento.

Il sussidio occulto: grandi industrie che non pagano

Uno dei punti più gravi dell’attuale legislazione – e che la riforma non corregge – è la discrezionalità nella riscossione dei diritti. Elena Burns presenta dati schiaccianti: i grandi utenti industriali “hanno concessioni per 4,3 miliardi di metri cubi d’acqua e pagano diritti su 900. Nel 2023 avrebbero dovuto pagare 56 miliardi di pesos, ma ne hanno pagati solo 12”.

La CNAA è più specifica: nel 2023, i concessionari per uso industriale e servizi hanno dichiarato solo 951 milioni di metri cubi dei 4.360 milioni concessi, e Conagua ha riscosso solo 12,4 dei 55,6 miliardi di pesos dovuti. Questa evasione fiscale idrica rappresenta un sussidio occulto miliardario alle grandi industrie, distorcendo completamente qualsiasi principio di gestione equa.

La riforma propone di ridurre drasticamente il termine per richiedere proroghe delle concessioni: da quattro anni e mezzo a soli sei mesi. Secondo Burns, questo sarà “un meccanismo per l’estinzione massiccia delle piccole concessioni, che attualmente rappresentano l’80% del totale ma dispongono solo del 20% dell’acqua”.

Un agricoltore o un proprietario terriero difficilmente dispone di una consulenza legale costante che gli ricordi di adempiere a questa procedura in tempi così ristretti. Questo cambiamento, apparentemente tecnico, funziona come un perfetto meccanismo di “appropriazione per logoramento”, in cui l’incapacità dei piccoli produttori di districarsi nella burocrazia comporterà la perdita massiccia dei loro diritti, liberando volumi per i grandi concessionari.

Il vero volto dell’appropriazione: agroindustria e centrali termoelettriche 

Burns richiama l’attenzione sul processo di appropriazione da parte dell’agroindustria a partire dagli anni ’90, in particolare dell’agroindustria degli zuccherifici e imbottigliatori, che insieme alle centrali termoelettriche sono i principali utilizzatori di acqua per uso agricolo. Mentre le autorità annunciano investimenti milionari per la tecnificazione dell’irrigazione in cambio della restituzione dell’acqua risparmiata da parte dei concessionari, la presidente Sheinbaum ha denunciato che alcuni si rifiutano di consegnarla e «c’è chi la vende».

Questa pratica è particolarmente grave quando si tratta di distretti irrigui che vendono ai comuni l’acqua che hanno ottenuto gratuitamente, commercializzando un diritto che dovrebbe essere pubblico.

Conagua: arbitro o giudice parziale?

La proposta concentra in Conagua, la Commissione Nazionale dell’Acqua, il potere esclusivo di concedere o revocare le concessioni. Sebbene in teoria ciò miri a porre fine al mercato informale della compravendita, per le associazioni della societá civile significa conferire tutto il potere a “un organismo opaco in cui sono stati verificati numerosi casi di corruzione”.

Burns esprime preoccupazione per le difficoltà di accesso delle comunità rurali ai sistemi digitali di Conagua e mette in discussione i criteri che l’istituzione utilizzerebbe per decidere chi ottiene le concessioni. “Per noi è un errore conferire tutto il potere a un’istituzione governativa, senza alcun criterio, senza trasparenza e senza partecipazione”, afferma, sottolineando che la Costituzione richiede la partecipazione dei cittadini e dei tre livelli di governo.

In aggiunta a ciò, una delle lacune più gravi segnalate dalla CNAA è che la proposta “esclude il riconoscimento dei diritti all’acqua dei popoli e delle comunità indigene”, un diritto sancito dalla Costituzione dal 2001. Inoltre, non riconosce i decreti presidenziali, che hanno valore giuridico superiore alle concessioni.

Questa omissione non è tecnica ma politica: ignora i diritti storici e i sistemi comunitari di gestione dell’acqua che hanno dimostrato una maggiore sostenibilità rispetto al modello centralizzato statale.

Gestione incompetente: il caso della falda acquifera Libres-Oriental

Francisco Castillo Montemayor, ex responsabile dell’Ambiente a Puebla, illustra le carenze gestionali con il caso della falda acquifera Libres-Oriental: «Fino al 2019 aveva una disponibilità compresa tra 4 e 7 metri cubi, mentre nel 2020 improvvisamente la disponibilità è diventata quasi nulla. Attualmente ha un deficit di 22 milioni di metri cubi».

La sua diagnosi è categorica: «Il problema dell’acqua nel 70% del territorio nazionale è dovuto all’inefficienza nella gestione, non alla scarsità delle risorse».
Questa incompetenza tecnica, unita agli interessi economici, ha creato una crisi artificiale che giustifica riforme che, invece di correggere il problema, lo aggravano.

Da parte sua, Elena Burns sintetizza il verdetto degli esperti: l’iniziativa «ci fa pensare che semplicemente si continui ad alimentare il sistema estrattivista e mercantilista. Nella Legge Nazionale sull’Acqua non si fa menzione del diritto umano all’acqua, non ci fornisce alcuno strumento per poter obbligare il governo a rispettare il diritto umano dei cittadini all’acqua».

L’omissione del minimo vitale gratuito – elemento essenziale del diritto umano all’acqua – conferma che la retorica dei diritti è solo una copertura per mantenere intatto un sistema di privilegi. Mentre il governo annuncia che modificherà l’iniziativa dopo le proteste, la sfiducia dei cittadini continua a crescere: temono che i cambiamenti siano solo cosmetici e che, dopo l’apparente dibattito, si consolidi un modello che perpetua l’acqua come merce per pochi e sete per molti. 

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